Una vita da mediano, a recuperar palloni … entriamo in macchina di Giuliano Giannichedda e la radio non lascia nulla al caso. Il nostro cammino dalla Stazione di Saxa Rubra, al bar vicino casa è allietato dalle note e le parole di Luciano Ligabue, "senti un po' che canzone", così esordisce, e con un sorriso, l'ex allenatore del Pro Piacenza.
Una vera e propria passione, la sua, per il calcio, nata da bambino come ci racconta in esclusiva per gianlucadimarzio.com: “Questa passione mi è stata tramandata da mio padre che ha giocato in Serie D. Per me e mio fratello ogni regalo dei miei genitori era un pallone per giocare a casa”. Pallone di Spugna come ci sottolinea: “Certo, altrimenti mia madre si arrabbiava”. Un rapporto quello con la sua famiglia molto forte come ci tiene a sottolineare: “La mia famiglia è stata determinante per me, con loro ho sempre condiviso tutto. Mi hanno insegnato il rispetto, l’educazione e la cultura del lavoro sono cose che ho sempre riportato in campo ed all’interno di uno spogliatoio”.
SORA, DOVE TUTTO E’ NATO
La storia calcistica di Giuliano Giannichedda inizia effettivamente da Sora: “Devo tantissimo al Sora, è stata la mia prima grande soddisfazione”. Ricorda che quella fu una trattativa lampo: “Durò 24 ore. Chiamarono mio padre e lui si informò sulla serietà della società, così, decidemmo di accettare. Lì ho incominciato a ragionare come uomo e non più come un ragazzino”. Anni importanti, con un ricordo speciale: “Quando penso a Sora penso sempre alla vittoria del campionato di C2, quello era un gruppo fortissimo, e solo con un gruppo così può raggiungere risultati impensabili”.
Il ricordo più bello? Presto detto: “Il rigore che segnai nello spareggio con la Turris! Segnai anche io, vuol dire che dovevamo proprio andare in C1”. Poi ci parla di Di Pucchio, il primo allenatore che gli cambiò la vita: “Gli devo tantissimo, mi ha insegnato tanto. Fu lui il primo a farmi giocare da difensore centrale. Prima di Sora-Perugia mi disse 'Giuliano oggi giochi in difesa, è un ruolo che puoi fare e ne trarrà vantaggio anche la tua carriera' ha avuto ragione”.
DAL BIANCONERO DEL SORA A QUELLO DELL’UDINESE
Il passaggio dalla Serie C1 alla Serie A, segna la definitiva maturazione da bambino ad uomo: “Mia madre quando l’ha saputo era veramente disperata, perché andavo a giocare a 700 km, per lei è stato molto duro, così come per me”. La trattativa? “Fu tutto molto rapido, l’Udinese mi volle più di tutti. Ricordo che al nostro primo incontro Gino Pozzo mi disse “allenati bene e metticela tutta, sappiamo che ragazzo sei, puntiamo su di te”. Poi ci racconta un episodio per lui molto inusuale: “Appena arrivai a Trieste, per le visite mediche, scesi dall’aereo e mi chiamò un giornalista, era la prima volta, è stato molto strano”.
Udine che, per Giannichedda, significa anche Alberto Zaccheroni: “Zaccheroni per me ha significato tantissimo, la mia carriera è stata soprattutto merito suo. Ci teneva a me sia come calciatore che come ragazzo. Dal secondo anno in poi mi faceva giocare anche con una gamba sola – poi aggiunge - C’era un feeling speciale ero la sua voce in campo”. Poi un curioso aneddoto: “ Ricordo quando ci siamo qualificati in Coppa Uefa, mancavano poche partite e il mister ci disse in spogliatoio prima di un allenamento “Ci dovete credere” noi eravamo un po’ titubanti, poi alla fine centrammo questo traguardo storico e lui disse “Giuliano te l’avevo detto”, ed io “Mister ha ragione sempre lei come al solito”.
Una storia interrotta quando Zaccheroni è andato al Milan, eppure … : “Ci fu una trattativa con il Milan, Zac mi voleva con lui, ma una delle tre parti in causa non era d’accordo”. L’arrivo di Guidolin, non modificò molto quell’Udinese: “Lui è uno che fa dell’umiltà, del lavoro e del sacrificio il suo diktat, quindi io mi trovavo alla perfezione”. Anche qui Giannichedda incomincia a sorridere: “Io non sapevo che era malato di ciclismo e allora una volta, tornando dentro gli spogliatoi, lo vidi che usciva con la bicicletta e io gli dissi 'Mister ma dopo l’allenamento dove va' e lui rispose 'Vado a fare un giro perché vedi questo è uno sport di sacrificio, voi fate lo sport dove non si corre e non si fatica, dovreste imparare dal ciclismo cos’è lo sforzo e il sacrificio' ed io risposi 'no no troppo sacrificio'".
Ad Udine, Giannichedda ha vissuto anche Luciano Spalletti: “L’ho vissuto poco ma intensamente. Si vedeva che era un insegnante di calcio. Ha una personalità fortissima,e gestisce lo spogliatoio come pochi. Ricordo che in ritiro giocavamo sempre a biliardo io e Gigi Turci, lui scendeva e si intrometteva”. Poi, ricorda il suo addio ad Udine: “Dopo tanti anni era giusto cambiare. L’abbraccio con Gino Pozzo prima di andare alla Lazio non lo dimentico”.
LA LAZIO: “SONO RIMASTO PER UN DOVERE MORALE”
Da Udine a Roma, alla Lazio Campione d’Italia: “Avevo voglia di confrontarmi con una piazza importante. A Roma sapevo che le responsabilità sarebbero aumentate, ma mi sentivo pronto”. Una trattativa che non riusciva a concludersi per colpa del... sonno: “ Ero in ritiro con l’Udinese, e avevamo un giorno libero, quindi decisi di alzarmi un po’ più tardi. Quando mi svegliai, vidi che dalle otto in poi avevo tantissime chiamate perse del mio procuratore, di Fiore e della mia famiglia che mi cercavano, per dirmi che bisognava formalizzare il passaggio alla Lazio. Pensai che fosse successo qualcosa di grave, poi chiamai i miei e mi spiegarono tutto”.
Alla Lazio Giannichedda ebbe a che fare con il primo Roberto Mancini: “Lui è molto pacato ed è un grande gestore del gruppo, mi stupì la differenza tra l’estro del giocatore e la calma dell’allenatore. Ricordo che durante un allenamento io facendo un colpo di tacco mi feci male e lui mi disse 'non avendo quel colpo il tuo muscolo non l’ha riconosciuto e ti sei fatto male', aveva ragione". Un rammarico? “Non avere vinto la Coppa Uefa. Eravamo una squadra forte, ma fummo beffati dal Porto di Mourinho. Pagammo venti minuti di black out in Portogallo ed in Europa non puoi sbagliare”. Poi aggiunge, “Vincere la Coppa Italia è invece il ricordo più bello. A Roma ogni successo è amplificato”. Giannichedda visse in prima persona il passaggio della Lazio a Lotito: “Per me è stato un dovere morale restare, andavano via tutti e bisognava dare un segnale”.
Lotito? “Ricordo che mi telefonò. Noi eravamo in ritiro in Giappone, avevamo tanti problemi e lui mi disse “non ti preoccupare stai tranquillo perché faremo la squadra”. Questa cosa mi colpì molto”. Un anno difficile prima del saluto alla città di Roma: “C’è stata una lunghissima trattativa con il presidente Lotito, io volevo rimanere alla Lazio e gli dissi “solo la Juve può farmi cambiare idea”. Sarebbe stata la mia ultima possibilità per vincere qualcosa di importante. Lotito ha fatto di tutto per trattenermi, ma poi gli feci capire che volevo andare alla Juve”.
JUVENTUS DALLO SCUDETTO ALLA SERIE B
Cosa vuol dire essere un giocatore della Juventus? Giannichedda ce lo spiega in parole semplici: “Alla Juve cambia la dimensione del calciatore che sei. C’è un’organizzazione maniacale ,un’attenzione incredibile, loro devono risolvere tutti i problemi all’esterno perché tu sei il calciatore che deve pensare solo a giocare”. E a casa cosa dissero: “Quando lo comunicai mi dissero che non ci credevano, sono partito da un campo senza porte ed arrivare in quella Juve era incredibile”.
Già quella Juve non era come le altre, c’erano campioni ovunque: “Era uno spogliatoio incredibile, guardarmi attorno mi faceva venire i brividi. Ricordo che il primo ad avvicinarsi a me fu Cannavaro e mi disse “Benvenuto tra noi, siamo felici che sei qui”. Sul periodo alla Juventus gli aneddoti si sprecano, e Giannichedda c’è li racconta con il sorriso: “Io arrivavo sempre un’ora prima all’allenamento perché ero quello meno conosciuto e pensavo che dovevo arrivare prima di tutti, solo che erano già tutti lì. Essere campioni è anche questo”. Nedved? “Quando perdeva le partitine in allenamento strappava letteralmente le pettorine”. Ibra? “Abitavamo vicini, e spesso andavamo insieme all’allenamento. Mi prendeva in giro per la musica che ascoltavo, ma avrei voluto farvi sentire quella che ascoltava lui”.
Del Piero? “Volevo fare il primo goal con la Juve e durante una partita, vincevamo 3-0, gli dissi se mi faceva tirare una punizione e lui rispose “Sei serio o stai scherzando e ci mettemmo a ridere”, Il tutto in campo”. Uno scudetto quello del 2006, come è noto, poi revocato, ma Giannichedda non vuole sentire ragioni: “Quello scudetto l’abbiamo vinto! In quel girone d’andata vincemmo tutte le partite tranne due. Eravamo fortissimi. Noi abbiamo sudato in campo e quello scudetto l’abbiamo vinto perché eravamo i più forti. E’ accaduto l’imponderabile, per me la Juve ha pagato per tutti”. Un’estate complicata quella del 2006: “La percezione era quella che comunque avremmo giocato in A, ricordo che nessuno si aspettava di disputare la Serie B. Noi eravamo in ritiro ed un giorno si presentarono Lapo e John Elkann dicendoci che la sentenza aveva condannato la Juve”.
Una situazione strana, inaspettata, ma neanche questa volta Giuliano abbandona la nave: “Sono fiero di essere rimasto in B con la Juve, per me è un motivo di grande orgoglio. Quando in una riunione Buffon, Nedved, Del Piero Trezeguet, dissero che saremmo tornati a grandi livelli, capisci che era cambiata solo la categoria ma non l’essere Juventus”. Un anno anomalo: “Capimmo di essere in B la prima giornata a Rimini, in ogni campo c’era gente ovunque. Quell’anno la proprietà Exor era spesso presente. Riportammo con merito la Juve in A”.
Dopo la sfortunata parentesi a Livorno, Giannichedda inizia la carriera di allenatore: “Mi chiamò Sacchi per entrare nel club Italia. Allenare i giovani ti aiuta tanto perché puoi farli crescere e fargli capire come affrontare questo lavoro”. Fare l’allenatore vuol dire proporre qualcosa di nuovo: “ A me piace confrontarmi con i miei giocatori per farli crescere. Cerco sempre di proporre qualcosa di nuovo perché credo che se proponi qualcosa di nuovo loro ti danno qualcosa in più”.
Finora tre esperienze diverse ma simili tra loro, per Giannichedda, identificato come l’uomo giusto nel posto sbagliato: “L’anno con la Racing Roma è stato molto importante. Stavamo costruendo qualcosa di buono per far crescere tanti ragazzi, poi dipende tutto da con che aspettative si parte e come queste si modificano durante l’anno”. Poi Viterbo, un’occasione finita male, o forse mai iniziata: “Era una buonissima squadra e per me fu una vera e propria scommessa. Quando sono arrivato si giocava ogni tre giorni, era difficile entrare nella testa dei calciatori, avendo queste sensazioni le ho comunicate e sono andato via”.
Ultima esperienza ma la più dolorosa con il Pro Piacenza: “E’ stata un’esperienza che mi ha insegnato tanto. Si era creata un’alchimia tra squadra staff e allenatore molto bella. Potevamo fare un bel percorso insieme. Finché abbiamo avuto la possibilità di fare calcio eravamo primi in classifica, poi non è stato più calcio”. Giannichedda ci tiene a sottolineare il rapporto con i suoi ragazzi: “Sono sempre stato al loro fianco. Quando non si parla più di calcio, ma di altro la testa va altrove e a me questo non piace. Quando sono andato via ho ricevuto messaggi di stima e affetto”.
L'ex Pro Piacenza, sa dove identificare questo problema, che non appartiene solo alla Serie C: “Quando si danno degli obiettivi ad inizio stagione non possono essere cambiati in corso. Pagano sempre gli allenatori. In Italia bisognerebbe dare più tempo ai progetti invece di volere tutto e subito”. Obiettivi? Adesso mi aggiorno guardo partite. Il calcio è la mia vita. Spero, presto, di poter diventare l’uomo giusto al posto giusto.
Giannichedda ci saluta, e ci riaccompagna alla stazione, stavolta non c’è Ligabue in sottofondo, ma fa lo stesso. Lo ringraziamo, perché le persone perbene vanno sempre al di là dei risultati e della sfortuna.
A cura di Francesco Falzarano