La Romagna in volata con Berti: “Cesena, una salita da rispettare”

La famiglia, il Manuzzi, gli amici di sempre e la bicicletta nel mito di Pantani: l’intervista al 20enne centrocampista dei romagnoli.
Si gira. Una sensazione inusuale. “Ma da quassù è uno spettacolo!”. Tommaso Berti non è abituato a vedere il campo dell’Orogel Stadium Dino Manuzzi dalla tribuna. “Mi siedo qui, con il prato alle spalle”. Dietro di lui il campo dove oggi ha il suo posto prenotato e il settore N dei distinti dove la disposizione dei seggiolini disegna la scritta: ‘Cesena F.C.’: “È cominciato tutto da lì con babbo e nonno”. Un modo per isolarsi. Per lasciarsi andare. Così, come la sua semplicità, la sua schiettezza e il suo intramontabile sorriso dimostrano in ogni chiacchierata. “La mia forza è essere cresciuto come mi vedono tutti: libero da ambizioni, sempre con i piedi per terra. Tranquillo. Non do peso a quello che succede intorno a me. Cerco sempre la calma e la serenità”.
Vent’anni, il viso e i connotati del ragazzino ben marcati, ma una maturità invidiabile: “La fortuna di fare quello che mi piace va rispettata”. E la strategia è chiara: “Cercare il miglioramento. Ogni anno devi avere sempre più fame. Sentirsi arrivati, soprattutto quando si raggiungono certi livelli giovanissimi come è stato per me è un attimo. Rialzarsi dopo la caduta per queste convinzioni non è semplice”. Si è estraniato Tommi, anzi “Muri” – come tutti lo conoscono nella sua città: Cesena.
Una storia, quella di Berti, avvolta dai sogni di tanti. Il suo nome come sentimento di un territorio. “Il Cesena rappresenta un popolo. La gente cerca il Cesena, i giovani vogliono il Cesena”. Forse non ha mai studiato il sillogismo aristotelico, ma la sua ‘filosofia’ è quella di chi ha contezza empirica e dialettica di ciò che afferma. “Quando a otto anni il Cesena mi chiamò già venivo allo stadio, quindi, ho iniziato a ragionare: sono entrato nella squadra che tifo e che mi ha fatto amare questo sport. Questo doveva tradursi in un valore aggiunto”.
Affronta la realtà. “Una volta capito è scattato un meccanismo per cui ero sempre portato a mettere tutto me stesso. L’importante è chiedersi, dopo ogni allenamento o partita se hai veramente dato il massimo”. Per contrastare ‘gli avversari’: “Per non avere rimpianti”. Al resto penserà il destino: “La sorte aiuta, ma va sostenuta”. Nel mezzo istanti ed episodi decisivi. “Il primo gol tra i professionisti in Serie C contro l’Aquila Montevarchi mi ha fatto capire che avrei potuto farcela”. Una istantanea dolce, sincera, spontanea: Tommaso Berti.
Steso sul prato del Manuzzi, mani al viso a coprire la tenerezza del momento. Lacrime di gioia. Ricordi che scorrono; pensieri che si accavallano. “Sembrava tutto perfetto: segno, l’arbitro fischia la fine. Vinciamo”. L’euforia del momento e la lucidità di Tommi. “Allo stadio quella sera c’erano amici e parenti, tranne mio babbo perché era andato a seguire la trasferta dell’under di mio fratello Filippo. Fino a quel momento era sempre venuto alle gare casalinghe. Ha guardato la mia partita dal cellullare, il gol ho dovuto raccontarglielo (ride ndr.)”. Un episodio per descrivere Berti: “Siamo due fratelli, giocavamo entrambi ed era giusto che ognuno avesse il suo spazio”.
Libertà e riconoscenza
Semplice, attaccato ai valori che lo rendono ciò che è oggi. “Vedi, i miei genitori non mi hanno mai imposto nulla. Non ho mai subito pressioni. Anche quando sono arrivato in prima squadra, nonostante il babbo fosse un grande tifoso del Cesena non mi ha mai rimproverato nulla o sottolineato errori dopo un match”. Avrebbe avuto i suoi argomenti: “Sì, ha giocato a calcio per anni, ma solo in categorie minori (ride ndr.)”. L’incontrastabile ciclo della vita. “Sono stati i miei genitori a rendermi un professionista”. Pausa. Limpida emozione. “Senza la loro educazione, forse, oggi non sarei qui”. Riconoscenza, affetto. Gli occhi. La mano che si avvicina alle palpebre. La tenerezza del ‘ragazzo’ fin qui intravisto solo nei tratti somatici. “Quando la società mi offrì il primo contratto da professionista ero ancora minorenne e dovettero chiamare loro per firmare. Sono stati fondamentali per la mia tranquillità e per non farmi montare la testa”. Basta. Come ci insegna lui stesso: rispetto. Per i ricordi. Quelli belli, personali, profondi. “Posso e devo solo ringraziare i miei genitori. Per essermi vicini in qualsiasi frangente. Mi hanno seguito e sostenuto ovunque, mi hanno fatto credere ogni giorno di più di poter arrivare dove sono ora”. Giovane…
Un viaggio è fatto di scelte. Difficili, ma essenziali. “Firenze e la Fiorentina erano l’esperienza che cercavo. Volevo provare a cambiare. Dedicarmi al calcio e allontanarmi da casa. È stato un anno molto importante”. Per Berti. “L’ambiente Fiorentina mostra quanto è complesso emergere e raggiungere la Serie A. Senza sacrificio non si arriva. Mi sono confrontato con i campioni della prima squadra, ho osservato il loro modo di allenarsi e ho imparato tanto”. E per Tommaso: “È stato un cambiamento: la prima volta lontano da casa e dalle mie sicurezze. Solo così potevo capire chi fossi veramente”. Ritorni: “A Cesena ho giocato la Serie C insieme a calciatori con decine di stagioni di Serie A alle spalle che mi hanno permesso di crescere in campo e fuori. Da Missiroli a Rigoni fino ai grandi dell’anno scorso. Raccogli tutto, assembli e maturi”. Da mamma e papà, passando per Biraghi, Nico Gonzàlez, Bonaventura, fino ad Aquilani, Italiano e il suo Cesena: la ricetta per essere professionista. Ma soprattutto “Muri”.

Il Manuzzi come il ‘campino’: “Cesena, l’ambizione di tutti”
Cresciuto nella piccola frazione di Calisese, dove tra morbide colline su cui poggiano filari di vigne e poderosi uliveti è riassunta l’essenza della sua Romagna. Durante la bella stagione distese di fragole colorano lo sfondo della sua infanzia. Vissuta dove tutto comincia con semplicità. “Il ‘campino’ della parrocchia” – dialettale, spontaneo: senso di appartenenza. “Era il rito del sabato pomeriggio: si finiva l’ora di dottrina e ci si fiondava a giocare senza sosta. Organizzavamo partite 10 contro 10 in un campo da calcio a 5 che duravano ore. Finché faceva buio d’inverno, d’estate andavamo così lunghi che i genitori erano costretti a venirci a prendere con la forza. Ma noi bimbi eravamo felici”. Ricordi di ‘burdel’: “I miei veri inizi”. E non solo. Il viaggio del calciatore 2004 bianconero narra il racconto di un territorio. “Spesso mi ripetono che porto in campo tutta la Romagna. Mi riempie di orgoglio e mi stimola a fare sempre meglio in campo: per non deludere queste persone”.
Nessuna responsabilità. Per Berti il calcio è “libertà e divertimento”. Indossare la maglia del Cesena, rappresentare la sua città, la sua gente, la sua storia “è questione di rispetto”. “La responsabilità ce l’hai sempre perché dietro c’è una società che ti ha scelto. A fare la differenza è il rispetto che nutri verso chi crede in te”. Come Cesena: “Quando giochi per la squadra della tua città tutto questo deve amplificarsi. Ma non la chiamerò mai responsabilità: sarebbe limitante”. Consapevolezze: “Famiglia, amici di sempre e conoscenti: so cosa rappresento per loro. L’ho vissuto anche io quando mi sedevo in gradinata ad ammirare Ciano, Sensi o Jimenez. Ma non dev’essere un peso”. Il suo mondo: “Chi cresce nel settore giovanile del Cesena non pensa ad altro. Serie A, B o C non cambia: l’ambizione di tutti è giocare al Manuzzi ed esultare sotto la Curva Mare. Ogni partita che io, Pieraccini, Francesconi e Cristian (Shpendi cfr.) facciamo in questo stadio, ogni allenamento a Villa Silvia sono il coronamento del nostro sogno”. Il vivaio bianconero: legami. “Ci conosciamo da anni, in campo si vede. E quando ripensiamo ai tanti momenti vissuti insieme nelle giovanili realizziamo quanto l’oggi sia ancora più emozionante: Cesena sarà sempre il Cesena”. Passione: essere Tommaso Berti.

La Premier League, il Giro e Pogačar: essere “Muri”
Lo ascolti, educazione e risolutezza spiazzano. Ma se chiude gli occhi: “Chissà, magari un giorno giocherò in Inghilterra”. Ma in pieno stile Berti: “Anche cominciando dalla Championship, non per forza dalla Premier League. È una cultura che mi attira moltissimo. Poi…”. Sorriso, leggero imbarazzo. “Poi ci gioca Bernardo Silva: un campione al quale mi sono sempre ispirato”. Forse la sua fantasia non colora solo il campo: “D’altronde i sogni sono il nostro ossigeno”. Per affrontare la salita. Come piace a lui. E come Romagna insegna: “Ogni buon romagnolo che si rispetti ama la bicicletta”. Passioni. “Pedalare è il modo per staccare dal calcio. Per stare con me stesso”. Ma c’è sempre qualcuno da ringraziare nelle sue esperienze: “Un pomeriggio scesi a casa del nonno mentre seguiva la diretta Tv del Giro di Italia. Non ci capivo nulla, però mi sono seduto a guardare”.
A tappe: “Nonno ha iniziato a spiegarmi le dinamiche del ciclismo fino ad appassionarmi. Poi ho preso la prima mountain bike e ho cominciato a uscire per strada e sui colli”. Chilometro dopo chilometro, strappo dopo strappo: “Arrivato in prima squadra mi sono comprato una bici da corsa e non ho più smesso. Adoro le salite”. Nei limiti. “Mi ripetono sempre che non potrei perché sono magro ‘spento’, in salita si consumano molte calorie e comprometto la crescita muscolare”. Gesto d’intesa eloquente: “Ciò…però…”. Identità romagnola. Un modo per ricordarsi di essere prima di tutto “Muri”. “L’anno scorso, a campionato vinto, sono andato in cima al Monte Grappa insieme ai miei amici per vedere passare il Giro”. In sella? “Certo, tutta la salita del Gran Premio della Montagna. Abbiamo riempito l’asfalto di scritte per il nostro mito Marco Pantani poi cancellate dalla grandinata notturna. Le abbiamo rifatte da capo e aspettato gli atleti”. Libero. “È stata una tappa fantastica vinta dall’alieno Pogačar. Esperienza bellissima ripetuta poi per il Tour de France sul valico del Barbotto”. Così, come lo vedi. Tommaso Berti, la Romagna e il Cesena: inizio e traguardo di una lunga scalata “da rispettare”.