Storia di Andrei: “Dalla Roma a sistemare le strade. Ma sogno ancora”
Romeno del 1996, Tugui arrivò a Trigoria nel 2013 da un liceo: “Giocavo con Pellegrini e spiavo Strootman. Poi la mia anca si bloccò”. E iniziò un’altra vita: oggi fa 250 km al giorno su un furgone
Palestrina, 44 chilometri da Trigoria. Ogni mattina la sveglia di Andrej suona presto. “Salgo su un furgone e giro per mettere in sicurezza le strade: sistemare le buche con l’asfalto, controllare che il manto sia a posto. Ci sono tanti chilometri da coprire”. Per la precisione, 250. Basterebbero per fare cinque volte il percorso che lo separa dal centro sportivo della Roma. Casa sua, per un periodo troppo breve, nel 2013. Il luogo in cui sognava di diventare “Andrei Tugui, centrocampista”. Non ce l’ha fatta, per ora. “Il mio sogno è ancora quello di fare il professionista”. Ma la sua storia va oltre un’etichetta. Parte da un liceo di Timisoara in Romania – dove l’agente Pietro Chiodi lo scovò – e arriva sull’asfalto della provincia romana. In mezzo ci sono i sogni e le delusioni di un ragazzo del 1996.
UNO SU MILLE
Non tutti riescono a diventare campioni. Uno su mille, quando va bene. Ci sono diversi modi però di essere fra quei 999. Questione di percorso, di mentalità e di carattere. Andrei è uno di quelli che non guarda alla vita dallo specchietto retrovisore: “Anche quando salgo sul furgone. Che senso ha girarsi indietro? Ogni tanto ci penso a quello che mi è successo, ma sono felice di avere un lavoro e di essere tornato in Italia”.
Passo indietro di sette anni. Andrej viene acquistato da Walter Sabatini per le giovanili della Roma nel gennaio del 2013. ”Ero felicissimo. All’inizio mi allenavo con i ragazzi della Primavera, quello del ’94. Tutti più grandi di me, c’era gente come Federico Ricci”. Sessioni toste, giornate passate sul campo e primi contatti con gli eroi: “Mi fermavo a osservare Totti e De Rossi. Qualche volta al bar – dove loro si mettevano sempre a leggere i giornali in un angolo – ci scambiavo anche qualche parola”. Icone di pallone, anche se il suo modello è sempre stato Strootman, “spiato” da bordocampo per carpirne i segreti. Affinità di ruolo con l’olandese e linguistica con Dejan Boldor e Lobont, portiere di riserva all’epoca. “Un grande. C’è sempre stato per me, anche nei momenti brutti”. Che non si sono fatti attendere. Dopo 5 mesi di lavoro intenso, soprattutto con i suoi coetanei del ’96 – fra cui il suo compagno di scuola Lorenzo Pellegrini – il giorno maledetto arriva.
IL CRACK ALL'ANCA
“Pallone da destra. Stop col sinistro e cambio di direzione. Almeno nelle mie intenzioni. Purtroppo il piede destro rimase bloccato lì”. Un infortunio tanto grave quanto singolare. “Una sorta di distacco dell’anca. Piangevo e non capivo cosa stesse succedendo”. Solo in Italia, a 17 anni e con un futuro improvvisamente diventato un punto interrogativo: “La Roma fu esemplare: lo staff medico mi curò per mesi. Sabatini mi spronava sempre. Mi diceva di rimettermi bene e che non vedeva l’ora di vedermi giocare. Purtroppo non avevo la testa per avere pazienza”.
Andrej se ne andò in Romania, cercando successo nella serie B locale, a Timisoara. Non lo trovò, anche per colpa dei postumi dell’infortunio. “Sentivo di aver perso un treno, ma non volevo perderne altri. Il mio obiettivo era tornare in Italia. E chiesi a Pietro di aiutarmi”.
UNA NUOVA VITA A PALESTRINA
Pietro Chiodi lo aveva portato a Trigoria da ragazzino per farlo diventare calciatore. Non era andata bene, ma gli era sempre rimasto vicino. L’obiettivo del secondo ritorno era trovare un lavoro in Italia, magari insieme a una squadra con cui riprendere il discorso interrotto. E pur non potendogli più proporre un posto in una squadra di vertice, Chiodi lo segnalò ad Augusto Cristofari, presidente del Palestrina – squadra di Eccellenza – e titolare di una ditta che si occupa di sicurezza stradale. “Iniziai ad allenarmi, poi andai in Romania ed ebbi un nuovo stupido infortunio. Volevo assolutamente tornare e il presidente mi disse che avrei potuto farlo, lavorando anche nella sicurezza stradale”.
E così fece: un nuovo biglietto per l’Italia, nello scorso febbraio, poco prima che la pandemia fermasse tutto. “Gli allenamenti della squadra si sono fermati quasi subito. Il lavoro invece no. Finito il turno, mi cambiavo e mi allenavo come potevo: in casa o correndo per le strade di Palestrina. Ho curato l’alimentazione come fossi un professionista. Perché voglio ancora provarci a esserlo”.
LA LETTERA
Intanto è già riuscito a mettere da parte gli errori di un passato su cui preferisce non tornare. Peccati di inesperienza che ha saputo analizzare. Oggi Andrei è diventato un uomo ed è grato per ciò che ha. Lo ha scritto in una lettera recapitata proprio a Pietro Chiodi. Poche righe per esprimere rispetto e gratitudine al procuratore che nel 2013 lo aveva portato alla Roma e che anni dopo si era ricordato di lui. “Voglio essere un esempio di volontà anche per i ragazzi che proveranno a fare il calciatore. Non sempre è possibile riuscirci, ma ogni giorno bisogna provare a dare il massimo”.
Vale su un furgone o con un pallone ai piedi. Andrei ha 24 anni. Ha il candore di un ragazzino e la tenacia di chi ha dribblato la parte più dura. Forse farà parte dei 999 che non ce l’hanno fatta a vivere di pallone. Ma, in tutto il resto, ce l’ha già fatta.