Marassi, 16 settembre 2018. In tribuna, a vedere Genoa-Bologna, c'è anche Cesare Prandelli. Forse una partita di piacere, forse a studiare per il futuro. Vicino a Gilardino e a godersi Piatek. Una tavola che sembrava già apparecchiata: oggi, dopo nemmeno tre mesi, l'ex ct della Nazionale riparte proprio dal Grifone.
"Ho voglia di ricominciare da casa e di trovare un presidente, un direttore che voglia condividere un
progetto tecnico", scalpitava Prandelli a settembre. Per una panchina che in Italia gli mancava da otto anni, se si esclude quella della Nazionale. L'Italia era stata l'apice, ma non solo, per l'allenatore di Orzinuovi. La Germania schiantata da Cassano e Balotelli (l'ultima coppia genio e sregolatezza valorizzata da Prandelli), la finale di Euro 2012 con la Spagna. Poi i ko con Costa Rica e Uruguay, il Mondiale che sfugge, la carriera pure. Galatasaray, Valencia, Al-Nasr: esonero, dimissioni, esonero. "La lingua non mi ha aiutato a trasmettere il mio calcio".
Un calcio quadrato e solido, come quel 4-4-2 (con relative varianti) che ha portato avanti sin dai tempi dell'Hellas. Ma fatto anche di passioni, di empatia e di pupilli. Brocchi, Morfeo e Frey, i primi che esaltò quando nel 2000 conduceva i gialloblù alla salvezza in Serie A. Ha sempre avuto un debole per la classe pura e incondizionata, Prandelli. E per i bomber.
"Toni lo volevo già quando ero al Venezia, mi piacciono quelli che hanno senso del gol". Pazienza, prima c'è il Parma. La prima occasione in un club di prima fascia, per un progetto a lungo termine. Cesare lega subito con la città, crea entusiasmo attorno a un gruppo giovane ma in continuità ideale con lo squadrone che ha dominato negli anni '90. Fa esplodere Adriano, Mutu e Gilardino (e ci sono ancora Morfeo e Frey), conquista due quinti posti (2002-2004) nonostante il crac societario.
Per Prandelli arriva la chiamata della Roma, ma la malattia della moglie Manuela arriva come un fulmine a ciel sereno. Lascia l'incarico senza aver nemmeno debuttato, la famiglia prima della panchina. Un anno più tardi ricomincia da Firenze e diventa il simbolo dell'era Della Valle. La Fiorentina di Prandelli è tra le virtù di una Serie A colpita anche tecnicamente da Calciopoli: due quarti posti (ma terza sul campo nel 2006-2007), una finale di Coppa UEFA sfumata solo ai rigori contro i Rangers, la Champions League tra quella storica vittoria ad Anfield e il fatale arbitraggio di Ovrebo (quel Bayern verrà fermato solo in finale dall'Inter del triplete).
Cinque anni speciali, dal 2005 al 2010. L'allenatore ancora oggi si dice tifoso della Fiorentina, di una piazza che gli è sempre stata vicina nei momenti più bui (dalla scomparsa della moglie nel 2007, all'addio sofferto). E quella viola è stata davvero a sua immagine e somiglianza: uno zoccolo duro di fedelissimi (da Ujfalusi a Donadel), unito a tanti giovani da lanciare (Pazzini, Babacar). E soprattutto un attaccante top (Toni prima, Gila poi) innescato da un giocatore-fantasia per cui impazzire (da Mutu a Jovetic).
La premiata ditta con cui Prandelli si è divertito e ha fatto divertire. A Genova trova Piatek, dopo averlo ammirato in quel pomeriggio di settembre. Una nuova macchina da gol, di quelle che piacciono a Cesare, per ripartire ancora una volta.