“No hay vuelta atrás” scrive nella sua lettera d’addio: non c’è ritorno, non ci sono ripensamenti. Per tutti quelli che si fossero chiesti se l’avvicinarsi di una finale così storica di Copa del Rey tra Athletic Bilbao e Real Sociedad potesse in un futuro fargli cambiare idea la risposta è arrivata in maniera immediata. Aritz Aduriz lascia il calcio giocato ufficialmente e chiude la porta con chiarezza a ogni ripensamento.
Termina così una delle più grandi storie d’amore recenti del calcio spagnolo, quella dell’Eterno León, del simbolo di una società che dei simboli ne ha fatto una tradizione. Aduriz è stato l’immagine più bella dell’Athletic degli ultimi dieci anni, ultimo erede di una grande dinastia di centravanti che va da Telmo Zarra, il più grande marcatore spagnolo della storia della Liga, a Pichichi, a cui è stato persino intitolato il titolo di capocannoniere del campionato.
Altre epoche ma soprattutto un altro Athletic, molto più vicino alle prime del Paese rispetto a ora, un periodo storico in cui gli assaggi d’Europa sono arrivati proprio grazie ad Aduriz.
Un grande basco nella squadra dei baschi, eppure immaginarlo come una bandiera dell’Athletic da bambino non era così facile. Innanzitutto perché nato a San Sebastián, la terra dei grandi nemici della Real Sociedad, e poi perché il calciatore ha rischiato seriamente di non farlo.
In una terra di enorme varietà sportiva come quella basca, Aduriz è nato da una famiglia di istruttori di sci, e lui a 9 anni era vice-campione nazionale di sci di fondo. Ha praticato anche canoa, surf e tennis, un vero sportivo completo, ma poi la passione per il calcio ha prevalso.
Dalla neve all’acqua, dall’acqua al prato. Pur avendolo sotto gli occhi la Real Sociedad se lo lasciò scappare, nonostante i 33 gol segnati in un solo campionato con le giovanili dell’Antiguoko, una piccola realtà di San Sebastián: finì dunque nell’orbita dell’Athletic, che nel giro di pochi anni lo portò in prima squadra per la prima delle tre esperienze con la maglia che gli ha segnato la carriera.
È passato anche da Valladolid, Mallorca e Valencia, ma è chiaro che in nessun altro posto meglio di San Mamés, vecchio o nuovo che sia, è riuscito a lasciare il segno, come se si potessero facilmente dimenticare le esperienze altrove. Coordinato, letale sotto porta, identikit di un attaccante completo, ma anche di un calciatore estremamente corretto, uno che per esempio in una gara con l'Eibar ammise una simulazione in area mettendo a tacere ogni polemica.
Da calciatore un’ottima giovinezza e una straordinaria maturità, perché il vero valore di Aduriz si è visto col passare degli anni. Molti dei suoi grandi record portano la firma del tempo: è il calciatore più anziano ad aver esordito in nazionale, è il calciatore più anziano ad aver segnato in nazionale, è il calciatore più anziano ad aver segnato 5 gol in una partita europea, il fantastico 5-3 al Genk arrivato 22 anni dopo il pokerissimo di Ravanelli.
Il tempo ne ha cresciuto il mito, l’amore compulsivo dei tifosi per la sua figura l’ha reso immortale nella storia dell’Athletic, tanto che nel 2016 a 35 anni riuscì a strappare anche un posto a Del Bosque per l’Europeo .
Quest’anno però il fisico gli ha parlato chiaro: “Il mio corpo ha detto basta, è arrivato il momento di dirsi addio” spiega nella commovente lettera d’addio. La sua stagione infatti non è stata delle migliori: l’infortunio all’anca, dove dovrà addirittura portare una protesi, l’ha limitato praticamente per tutto l’anno.
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E se a uno come lui mancano le forze anche di aspettare una finale come quella tra Athletic-Real Sociedad, allora si capisce la resa del suo corpo. Sarebbe stato bello vederlo chiudere con un ultimo grande ballo, ma comunque l’immagine che lascia al calcio giocato è sempre di grandissimo prestigio: il suo ultimo gol segnato in carriera è quel capolavoro da 3 punti in rovesciata segnato alla prima giornata contro il Barcellona. La perfezione del gesto tecnico, l’ultimo ruggito dell’Eterno León.