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Lo sforzo più grande è quello di provare a raccontare Luciano Gaucci in poche parole. Non possono bastare. Perché se c’è stato un protagonista nel calcio degli anni ‘90, quelli d’oro in Italia, questo era lui. Big Luciano ha rappresentato la figura del padre-presidente che passava il tempo a comprare squadre, giocatori, a sfidare lo sfidabile e a vedere le regole come un impedimento a un calcio pronto a volare.

L'uomo che guidava i tram

È stato una grande contraddizione, è stato un cataclisma. Ma se il calcio ha conosciuto tanti campioni, beh, un bel po’ di merito l’ha avuto. È un percorso lungo, il suo. A tappe. Quelle le ha contate per anni, quando faceva il tramviere. Perché è partito da lì. Poi, ha aperto un’azienda di pulizie industriali: era il 1974 e si chiamava “La Milanese”. “Dà un senso di ordine”, diceva lui che di romano aveva conservato una spontaneità a volte fin troppo esacerbata. 


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Gli affari crescono, arriva ad avere oltre 3mila dipendenti: comincia la partita. Investe nelle corse dei cavalli, investe nei cavalli direttamente. Ma ha il pallino del calcio: nel ‘90 tenta di acquistare la Roma (grazie ai buoni uffici di Dino Viola, con cui condividerà brevemente il ruolo di vicepresidente del club), poi la Lazio. Niente. Alza gli occhi, Perugia lo attende. Novembre 1991, forse non si aspettava di poterci rimanere per 15 anni e di fare la storia. Sfida chiunque: porta il Giappone in Italia con Nakata, quindi la Corea con Ahn, che poi però mette fuori squadra perché ha battuto l’Italia ai Mondiali. Nel mezzo decide di puntare su Galeone, Cosmi, Colantuono come allenatori; pesca dal mazzo giocatori come Baiocco, Blasi, Grosso, Olive, Materazzi. E litiga, litiga da matti. Con tutti.

Le provocazioni

Lo scontro con Matarrese, indimenticato presidente del Bari, in cui viene ripreso gridando un sonoro “Mortacci tuoi!” è leggenda: era già il 1999, il Perugia era una realtà da Serie A, e qualche anno dopo avrebbe raggiunto la Coppa Uefa. Nulla che non si possa scoprire leggendo Wikipedia, o gli almanacchi. Litiga, sì. E provoca: come quando decide di ingaggiare per la sua squadra Saadi Gheddafi, figlio dell’ex dittatore libico; o come quando prova a forzare le regole del calcio cercando di ingaggiare una calciatrice per la squadra maschile. “Non è scritto da nessuna parte che il calciatore debba essere uomo”, ripete. Si accontenta, assumendo Carolina Morace – si è parlato tanto di lei di recente – ad allenare la Viterbese (maschile), società satellite acquistata per diletto, come la Sambenedettese e il Catania. Durerà due partite, ma non importa.

Gli scandali

Provocazioni e scandali lo hanno sempre accompagnato. Dopo 2 anni di presidenza nel Perugia, fu condannato per aver regalato un cavallo all’arbitro di Siracusa-Perugia (25 aprile 1993), che fece ribattere continuamente un calcio di punizione agli umbri finché non segnarono la rete della promozione in B, poi revocata. Nel 2003 causò il terremoto della Serie B con il suo Catania, che venne ripescato per illeciti e vizi di forma, portando il torneo a 24 squadre e sconquassando il sistema delle promozioni e retrocessioni. Poi, nel 2005, l’apice della catabasi: fallimento del Perugia e fuga a Santo Domingo, per non essere arrestato per bancarotta fraudolenta (80 milioni di debiti).


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A pagare (anche) per lui furono i due figli e il fratello: la sua latitanza di tre anni venne revocata e tornò brevemente in Italia, prima di trasferirsi definitivamente nelle Antille. Un buen ritiro che ha accompagnato gli ultimi anni della sua vita, probabilmente velato da una nostalgia verso quello che avrebbe potuto fare in un calcio sempre più nuovo e aperto a sperimentare. E a scoprire. Ci sarebbe ancora da raccontare la sua esperienza di far rinascere il Napoli dalle ceneri del suo fallimento, nel 2004: aveva già ingaggiato l’allenatore, Gregucci, ma non era riuscito a portare tutte le necessarie garanzie. È la sua storia non scritta, quella. E le poche parole sono state superate da un pezzo.