Volontà e paura di perdersi, la lunga partita di Adamo: “Cesena e ‘Robi’, con voi sorrido alla vita”

L’infanzia difficile nella sua Napoli, la solitudine e gli incontri. De Zerbi, l’amore per il padre e la svolta della paternità: l’intervista al centrocampista del club romagnolo.
Una stretta di mano. Poi un’altra. E un’altra ancora. La sensazione che quello che staremo per ascoltare non sarà il racconto di uno: Emanuele Adamo, 27enne esterno destro del Cesena, ma una storia che unisce diversi cuori. Si siede. Ha già capito. Dietro di lui le nubi e la Curva Mare. Come di norma quando sulla fascia si lascia spingere proprio da quello spicchio iconico di stadio. “Cesena, la Romagna e il Cesena mi hanno adottato – dice – ho instaurato un rapporto importante con questa terra. Sto proprio bene”. La sua “Curva Mare” è lì con lui. Seduta in Tribuna Vip. Lì, dove, forse, nessun Adamo si sentirebbe a proprio agio. La notorietà, l’esposizione di sé e i riflettori non si addicono. “Vabbè, però il faretto lo accendiamo che qua si fa sempre più buio”. Necessità, il leitmotiv di una carriera. Qualcuno sta registrando tutto. Conferma: Emanuele Adamo, per tutti “Manolo”, è il titolo delle vicende di molti.
Lo sguardo si sposta spesso. Molti cenni. Cerca sostegno. Si conosce. “Mio cugino, la sorella e suo cognato (li indica cfr.) sono figure fondamentali. Mi sono sempre stati vicini, soprattutto, nei momenti in cui mi perdevo”. Esitazione. Sì, “Manolo” ha qualcosa di intenso da raccontare. Ricco. Forse, pesante. “Vedi, io cerco di non mostrare mai le mie debolezze. Preferisco chiudermi in me stesso e soffrire da solo”. Ancora un’occhiata. Sincera. Tenera. Profonda, come ciò che trasmette. “La mia fortuna sono loro. Mi hanno aiutato: un ‘grazie’ non basterebbe”. È questo il filo conduttore del percorso che porta Emanuele nel calcio professionistico: l’eterna lotta tra volontà e paura di perdersi.
“Le emozioni che sto provando in questo momento sono quelle che ho sempre sognato sin da bambino. La Serie B è il palcoscenico in cui tutti i ragazzini come me, all’epoca, avrebbero voluto giocare”. Un condizionale dai tratti imperativi. “Ho fatto così tanti sacrifici per essere qui che Cesena, questa categoria, il ‘Manuzzi’ non posso considerarli un arrivo, ma un inizio”. Concezione del presente nata sul solco del passato. Fatto di ripetuti stop e necessarie ripartenze. Non solo quelle col pallone tra i piedi divenute concreta manifestazione di un sogno, ma anche personali.
“La mia vita è sempre stata il calcio. Anzi, il calcio mi ha ridato una vita”. Riconoscenza. “Sono cresciuto in un quartiere di Napoli inserito in un contesto difficile”. Un profondo eloquente sospiro: “Quartieri Spagnoli: lì serve imparare a sopravvivere il prima possibile”. E forse… “Io ci ho provato. Le mie vicissitudini familiari, i miei comportamenti e le necessità mi hanno costretto a crescere prima del tempo”. Le domande sembrano superflue. “Ho incontrato molti ostacoli. Ho avuto molti momenti di sconforto e crisi: sia familiare che personale. Sono sempre stato da solo, fin da piccolissimo. Mio padre era spesso fuori casa…”. Gli occhi specificano anche troppo. “Mia madre doveva seguire anche le mie due sorelle facendo innumerevoli sacrifici. Perciò, io ho cercato sempre di arrangiarmi. Altrimenti…”.
‘Warrior’
Come in campo con le difese avversarie. Adamo si si sta aprendo. Sferzante. Senza paura. “Altrimenti ci sarei caduto anche io. Ero un ragazzo debole, mi lasciavo trascinare da ciò che mi circondava. Non avevo gli elementi per comprendere. Ho rischiato. E una volta entrato in quel giro uscirne sarebbe stato impossibile”. C’è reticenza nell’approfondire. Quella paura, forse, non sparirà mai del tutto. Criminalità? “Sì”. Quando la vedi, quando ti sfiora, prova a fagocitarti, ne porti il segno nell’anima. Ti resta attaccato come una seconda pelle. Della quale, però, puoi farne la tua corazza. “Vedi questo tatuaggio sul collo? Voglio che lo vedano tutti: c’è scritto ‘Warrior’. È il riassunto della mia vita. Ho lottato per scappare da quel contesto e allontanarmi per sempre. Io ce l’ho fatta”. Sì, lui. “Tanti conoscenti e amici con cui giocavo per le strade dei Quartieri hanno preso quella strada. Altri non ci sono più”. Guerriero: “Se non avessi avuto la forza di volontà per mettermi in testa di fare qualcosa esclusivamente per me stesso non avrei avuto chance”.
Quella Napoli. Quei giovani inconsapevoli. Sono i mattoni che costruiscono Emanuele. “Se tornassi indietro rifarei tutto. Il mio trascorso, l’infanzia in solitudine, i mei errori: se oggi sono questa persona e sto realizzando i miei sogni è solo per quello che ho vissuto”. Eppure, in Adamo si ritrovano anche immagini di superata ‘normalità’. Quasi dimenticate. Bambini per le strade intenti a divertirsi. Un pallone calciato contro il muro. Due sassi a delimitare una fantomatica porta. L’’areoplanino’ dopo un gol. La lite per battere la punizione dal limite. Quale limite non conta. “È cominciato tutto così. Passavo pomeriggi interi a giocare per strada, tra i vicoli dei Quartieri. Il pallone era la mia pace”. Oggi come allora, ma a testa alta. Amici, ieri, avversari, oggi, saltati come birilli e scatti brucianti. Occhi sbarrati e applausi. La strada: il suo primo Orogel Stadium.

Fuga, sofferenza e crescita: Foggia e De Zerbi ‘per Emanuele e Adamo’
Nel costante slalom tra rivalsa e derive imprevedibili gli incontri si rivelano sprint decisivi. “Tra i ragazzi con cui giocavo c’era un certo Danilo. Continuava ad avvicinarsi a me a chiedermi cosa ci facessi per strada, perché non giocassi a calcio seriamente. Per lui ero il più forte. Finché, un giorno mi invitò a seguirlo. Accettai. Mi portò alla scuola calcio di Posillipo. Aveva ragione: da quel momento non mi sono più fermato”. Inizia a studiarsi. Si guarda dentro. Adamo vuole congiungersi con Emanuele. Il collante: la realtà. “Posillipo è stata la prima squadra. Mi allenavo in un campo, affrontavo le prime partite, ma ero ancora debole, influenzabile: uscivo la sera, facevo qualsiasi ‘ragazzata’. Poi ho iniziato a convincermi che per avere un futuro diverso avrei dovuto lasciare Napoli”. Un arrivederci o un addio in quel momento non cambia. “A sedici anni mi sono trasferito a Foggia per giocare nella Primavera rossonera”. Ma la realtà dalla quale vuole allontanarsi torna prepotente. Ferisce. “All’inizio ho fatto fatica. Mi rinchiudevo in me stesso, passavo ore in camera da letto da solo a piangere. Soffrivo la lontananza da casa e dalla famiglia”. Lacrime bagnate di consapevolezza. “Quei momenti mi sono serviti per capire che l’artefice del mio futuro potevo essere solo io. Qualsiasi sacrificio, ogni rinuncia: ho fatto sempre tutto da solo”.
Camminando verso la vetta è facile imbattersi in altri viandanti. “Faccio solo un mese di Primavera e vengo aggregato alla prima squadra per espressa richiesta dell’allenatore: Roberto De Zerbi”. Due sentieri opposti si intrecciano nello snodo fondamentale. “De Zerbi non mi ha più lasciato. Mi teneva con lui tutta la settimana. Impose che non mi convocassero per le partite in Primavera perché la domenica mi voleva con la prima squadra. È stato fondamentale”. Decisivo, quasi paterno: “Ero il suo ‘pupillo’ (ride ndr.)”. Una figura quasi paterna. Capace di imprimere nel giovane Emanuele la sconosciuta autostima. “Era fortissimo già allora. Eravamo tutti sicuri che avrebbe fatto una carriera importante”. Nessun numero, nessuna tattica. Solo passione. Umanità e umiltà. “Teneva moltissimo ai giovani. Ha sempre avuto un rapporto straordinario con tutti i giocatori. Riusciva a entrare nella testa del calciatore e a metterlo nelle condizioni di tirare fuori tutto quello che da solo non avrebbe mai espresso”. Ogni giorno trascorso in Puglia alimenta in Adamo la coscienza di aver fatto la scelta giusta. “Non è stato solo l’allenatore ad aiutarmi. In quel Foggia ero il più giovane, ma tutti i miei compagni sono riusciti a non farmelo pesare. Antonio Vacca, Iemmello, Sarno: per me erano tutti dei fratelli maggiori. Mi coinvolgevano, mi portavano a cena: qualsiasi cosa purché non mi isolassi, non mi perdessi nella nostalgia di casa e nelle mie insicurezze”. Esperienze: l’unica ‘strada’ per arginare gli ostacoli. O superarli.

In lotta con sé stesso
Serie D all’Hercolaneum a Napoli, poi Audace Cerignola. Nel mezzo il riemergere degli spettri. “Un giorno dopo una partita decido di non tornare più a Cerignola. Ci stavo ricascando”. Il buio torna con forza. “Era un periodo in cui non mi riconoscevo più. Avevo la testa altrove. Soffrivo a vedere i miei amici uscire la sera per andare divertirsi mentre io ero costretto a rinunciare”. ‘Cade’. “Ho deciso di smettere. Ho lasciato il calcio sicuro di non ricominciare”. Un tragico déjà vu. Consumato a tal punto da alienarsi al suo scorrere lento e imperterrito. Con una differenza: lo scudo dell’esperienza. “Un anno intero senza calcio finché ho ripreso a ripetermi che quella non era la vita che volevo: non era il mio posto. Lo facevo per forza. Non ero me stesso”.
Emanuele riprende a correre. Lo (ri)scatto più importante. “Dopo quel periodo di stop non avrei mai pensato di tornare a giocare. Men che meno di esordire tra i professionisti in Serie C come accadde. Avevo scelto di mollare tutto, stavo per ricadere nel baratro, ma mi sono rialzato di nuovo”. La strategia? La stessa. “Me ne andai ancora da Napoli. Con l’intenzione di non tornarci”. Andria, Caserta, Avellino, Monterosi. Fino alla personale rivincita: Cesena. Tre stagioni in bianconero per sentirsi libero.
Un vuoto nel quale ritrovarsi
La ricompensa del destino: la promozione in Serie B. Un istante per illuminare 26 anni. “Al fischio finale della partita col Pescara che ci regalò la vittoria del campionato e il salto di categoria ho avuto un unico pensiero”. Calma. Il battito del cuore sovrasta l’incessante frastuono della pioggia. Rispetto. Silenzio. “Mio padre. Negli ultimi anni ha sofferto per problemi di salute e personali. Appena rientrato negli spogliatoi ho preso il telefono e l’ho chiamato”. L’unicità spiazzante del momento. “Non avevo mai visto mio padre piangere. Quella sera, nonostante fosse una videochiamata, sentivo le sue lacrime scorrermi addosso”. Una, due, tre volte. Senza sosta. “Da quella sera abbiamo cominciato a sentirci tutti i giorni. A ragionare sul mio futuro. Giocherai la Serie B? Resti o vai? Bello”.
La riconferma di Adamo a Cesena arriverà. Il seguito è solo di ‘Manolo’, come lo chiama papà. “Il 5 luglio ci ritroviamo qui a Cesena per allenarci e prepararci per il ritiro di Acquapartita. Il giorno della partenza mio padre viene a mancare”. Soffre. Gli ha regalato l’ultima grande soddisfazione della vita. Ma, oggi, forse perché Emanuele siede anche dall’altra parte, non riesce a comprenderlo del tutto. “L’unico rammarico che ho – bisbiglia nella più spontanea delle commozioni – è che non ha potuto vedere l’esordio in Serie B”. Basta. Un silenzio che non è assenza, ma presenza. Un vuoto di cui ha paura, ma nel quale non si smarrisce. Anzi, si ritrova. “Gli parlo sempre. Lui e mio figlio sono i miei pensieri fissi. Spero solo che mi senta”.

Una nuova ‘sfida’ con sé stesso: Robi
Armonia di emozioni. Le stesse che risuonano alla pronuncia del nomignolo ‘Robi’. Gli occhi si riaccendono. Tornano a brillare di gioia. Serenità. Amore. “Diventare padre non è facile, ma mi ha permesso di maturare tantissimo. La nascita di un figlio porta con sé molte e nuove responsabilità. Robi mi ha cambiato la vita: adesso qualsiasi scelta, gesto o comportamento è fatto pensando a lui”. Aneddoti di ordinaria passione griffata Adamo. “Ha appena compiuto due anni. Non credo abbia capito come funzioni il calcio, ma ci prova. Mi hanno mandato un video in cui, davanti alla Tv, indica il pallone e chiama papà. Poi prende la palla e inizia a calciare”. Sorride alla vita. Insieme. Il tempo della solitudine è finito. “Voglio portare Robi al ‘Manuzzi’”. Con una certezza. “Qualsiasi gol segnerò da qui in avanti sarà solo per mio padre e mio figlio”.
Sulle note di ‘Romagna Mia’? “Anche, ma senza dimenticare il repertorio neomelodico napoletano”. Semplicità. “Cantare è una mia grande passione”. Ovunque. “In spogliatoio? Sempre! Le metto ad alto volume cosicché possano sentirle tutti i miei compagni”. Rischioso. “E quante me ne dicono! Tra chi mi sfotte, chi vorrebbe che spegnessi. Però ho anche degli alleati”. Fil rouge: “I fisioterapisti mi portano addirittura le casse e mi incitano a mettere le canzoni (ride ndr.)”. Giudizi e contesto si affrontano. Paure e fragilità, fendenti divenuti scudi di un ‘guerriero’. Ad Emanuele Adamo gli onori e la gloria del trionfo: Cesena, Robi, quella Tribuna Vip commossa e il cuore rivolto al cielo. Dove risuonano i sentimenti di ‘Manolo’.