Talento, infortuni, rabbia: una carriera in tre atti, quella di Michael Owen, una delle più dolci illusioni del calcio del terzo millennio. 40 anni oggi, con tanti rimpianti ma forse con una serenità ritrovata. Quella che negli ultimi anni da giocatore l’aveva abbandonato, per i tanti problemi fisici e per la rassegnazione di non essere mai più tornato ai livelli di un tempo. “Nei miei ultimi sei o sette anni da giocatore odiavo il calcio. Non vedevo l’ora di ritirarmi” era arrivato ad ammettere l’ex attaccante in una lunga intervista rilasciata nell’agosto 2018.
Gli anni d’Oro
Cresciuto nel settore giovanile del Liverpool, la sua avventura con i Reds comincia nel 1997 quando segna al debutto in Premier League contro il Wimbledon. Quella rapidità impressionante con e senza il pallone tra i piedi, unita alla naturale predisposizione per il gol, lo rendono uno dei talenti più interessanti a livello internazionale. Il gol all’Argentina ai Mondiali del 1998 resta una delle istantanee più belle della sua carriera: lo scatto, il dribbling bruciante su Ayala, la palla morbida sull’altro palo. Fino ad arrivare all’anno d’Oro, il 2001, dove vince la coppa UEFA, la coppa d'Inghilterra e la Supercoppa Europea; trionfi che gli valgono l’assegnazione del Pallone d’Oro.
Il calvario degli infortuni
865 giorni da infortunato, quasi due anni e mezzo: è questo il periodo di inattività di Michael Owen se si sommano tutti i momenti in cui è stato limitato dai problemi fisici. Un totale di 132 partite saltate nei sette anni con Newcastle e Manchester United, per i motivi più vari. Tutto comincia con la rottura del legamento crociato del 2006, poi i primi problemi muscolari che non gli hanno dato tregua con i Red Devils e i fastidi alla caviglia. Lo strappo al bicipite femorale nel 2010 lo costringe ad operarsi e gli impedisce peraltro di prendere parte alla spedizione mondiale in Sudafrica.
La rabbia
Una carriera piena di frustrazione, in cui Owen ha vissuto attimi di onnipotenza che non è mai stato più in grado di replicare. La sua fragilità, prima fisica e poi anche mentale, l’ha costretto a smettere a soli 34 anni, dopo l’ennesima stagione al di sotto delle proprie aspettative con la maglia dello Stoke City. Nonostante la nuova occupazione nella sua scuderia di cavalli nel Cheshire, la contea dov’è nato, il calcio non l’ha mai perso di vista. Ambasciatore degli Europei del 2020, in un’autobiografia ne ha avute per tutti: da Capello (“È stato uno dei peggiori allenatori dell’Inghilterra di tutti i tempi”) a Beckham, all’esperienza Newcastle, definita “un passo indietro nella mia carriera”. Tanti capitoli di una storia incompiuta.