Guardi il gol di tacco al Parma e ti stupisci, poi ti arrabbi, infine ci ridi su. Perché uno così forte, talentuoso, calcisticamente ‘arrogante’, non ha mai capito davvero quanto fosse tutte e tre le cose.
Jeremy Menez è estro, pigrizia, qualità, sregolatezza, contraddizione. Nelle giocate e nelle scelte. A 16 anni rifiuta lo United di Sir Alex “perché non è il momento di andar via”, a 25 dice no alla Juve di Conte - ‘dividi et impera’ in Serie A - per accettare il Psg: “La mia squadra, la mia città”. A undici anni molla il rugby “perché prendeva troppe botte”. E se potesse scegliere, oggi "giocherebbe a tennis".
What if
Menez è l’ottava sinfonia di Schubert, bella e incompiuta. E ciò che fa arrabbiare, soprattutto quando vedi il gol al Parma in cui “c’è tutto se stesso” (parole sue), è proprio il suo essere incompleto. Mai davvero grande, sempre discusso, sul filo dell’ipoteticità e del dubbio. Più ‘FenoMenez’ che fenomeno.
Un geyser del pallone, fiammate a intermittenza per cui vale la pena aspettare. Menez non è un film per tutti, va capito: Inception. La trottola gira.
Il calcio gli ha salvato la vita, dice. “Senza il mio talento sarei finito in carcere come i miei amici”. E se in quel talento avesse creduto un po’ di più, chissà dove sarebbe arrivato. Oggi sceglie la Reggina, lascia Parigi e la sua banlieue per la seconda volta, ancora per l’Italia.
Dopo il Psg sposa il Milan. Doveva fare l’esterno ma finisce centravanti: 16 gol, mai così tanti, uno anche al derby. Decimo posto con Inzaghi, poi litiga con Montella: “Con lui mi sono comportato da cogl…”.
Vizio Capitale
E la Roma? “La Capitale mi ha dato tutto, i primi mesi ho vissuto a casa di Totti”. Non ne ha mai parlato male, anzi: “Tornerei di corsa”. Lui e Ranieri, tra incomprensioni e schiarite, potrebbero scrivere un libro di 300 pagine, chissà di che genere. “Quando gioca dall’inizio è motivato, se entra a gara in corso no. Serve il bastone, non solo la carota”. Oppure: “Menez è un diamante, va lucidato sempre”. 12 gol in 3 anni, pochi.
A Menez piacciono i tipi alla Ancelotti, che al Psg partecipava ai barbecue di squadra: “Non l’ho mai sentito urlare”. Spalletti invece sì, come tanti altri, dal Sochaux al Monaco: “Ero come Kakà, mi sono cullato sul talento”. La solita, vecchia, e vera storia, purtroppo. Simbolo di una generazione ‘perduta’, quella degli ’87 francesi campioni d’Europa U17 nel 2004: lui, Nasri e Ben Arfa. I Godot del calcio d’oltralpe, mai arrivati.
Reggio calling
L’Italia gli ha dato la prima chance di mostrarsi al mondo, e adesso gliene mette a disposizione un’altra dopo il Paris FC, scelta dopo il fallimento in Messico col Club America. “Ho avuto problemi personali”. La Reggina di Toscano l’ha reclutato in un progetto ambizioso, solido, oggi in Serie B e domani chissà. In Calabria sognano in grande.
Come Jeremy, che a 33 anni ha ancora voglia di uno slalom, per far vedere a tutti che ‘Houdini’ non è sparito, e che stavolta si vede il film fino alla fine. Il Granillo può dargli un calore unico, Menez sa farti divertire. Come a scuola: “Facevo passare il filo delle cuffie sotto la manica della camicia e fingevo di appoggiare la testa sulla mano. Mentre dormivo sognavo il calcio”. La quiete prima del geyser.