Volto duro ma benevolo, quell’italiano per sommi capi e Sampdoria. Difficile immaginare il gotha degli allenatori più cult di sempre senza Vujadin Boskov. Ma se molti di loro sono stati spesso superati (Oronzo Pugliese?) o distorti (Malesani?) dal mito che li precede, per il serbo è tutta un’altra storia.
“Così come si racconta”, spiega Pietro Vierchowod in esclusiva per GianlucaDiMarzio.com. “Un tipo particolare ma autentico, senza lati da nascondere. Quello che si vedeva in panchina era lui nella vita”. Quel ragionare per massime, con l’aplomb da vecchio saggio, viene confermato anche da chi l’ha vissuto a lungo e tutti i giorni. Come l’ex difensore oggi 61enne: “Più che un allenatore era un padre. Non è che ci imponesse le cose, però ce le faceva sembrare obbligatoriamente piacevoli”.
Insieme sei stagioni alla Samp, le più brillanti della storia blucerchiata: “La sua forza più grande era la gestione del gruppo. Boskov ascoltava sempre i suoi ragazzi, facendo sentire tutti partecipi. Anche se alla fine decideva lui”.
Un esempio? “C’era stata una partita importante in cui la squadra voleva che giocasse Toninho Cerezo”, ricorda Vierchowod. “Lui disse va bene, se la Samp vuole così metterò Toninho. Eravamo felici, io gli altri big: il brasiliano era indispensabile per il nostro gioco. Prima del match fui io a dirgli di stare tranquillo perché sarebbe partito dall'inizio”. Poi il colpo di scena: “Dieci metri prima di entrare in campo, dove l’allenatore era solito consegnare le maglie, quella di Cerezo la diede a Katanec. Toninho venne da me, un po’ incazzato: cosa potevo dirgli, se Boskov aveva cambiato idea all’ultimo? Poi vincemmo grazie a un gol di Katanec. Era l’anno dello scudetto”.
Conseguenze inevitabili: “Lo ammirai, a posteriori ancora di più. Ma dopo quella volta non mi fidai più di dare info prepartita ai miei compagni”.
"Chi ha sbagliato, Pagliuca?"
Le proverbiali risate non mancavano. E a riprova dell’uomo a braccetto con l’allenatore, i primi momenti che vengono in mente a Vierchowod sono quelli immortalati dalla Gialappa’s. “Vujadin non ci vedeva molto”, spiega Pietro. “Questo era il grande equivoco, mentre la tv inquadrava la nostra panchina. Quando le cose succedevano nella nostra metà campo, ancora ancora si salvava. Ma a 70 metri di distanza strizzava gli occhi e chiedeva sempre al suo vice chi avesse sbagliato. Era una comica. Meno male che avevamo un grande secondo come Pezzotti, bravissimo a leggere le partite e a consigliarlo. Perché non portasse gli occhiali? Misteri di Boskov…”
Dietro i sorrisi, la qualità dell’allenatore. “Quando perdevamo era unico. Penso alla finale di Coppa dei Campioni, finita in quel modo assurdo”. Wembley, la punizione di Koeman, il Barça di Cruijff che beffa la Samp ai supplementari. “Per noi è stato un momento drammatico”. Non per Vujadin: “Meglio aver giocato finale che non giocare per niente”. Vierchowod a distanza di anni riflette: “Vincerla sarebbe stato il massimo, ma era vero: per una squadra come la Samp si trattava già di un traguardo incredibile. Boskov era molto bravo a sdrammatizzare e a non farti sentire la responsabilità della sconfitta”.
“Una volta a Torino finì 3-0 per i granata, tutti noi incazzati neri sul pullman”, fioccano gli aneddoti. “E lui, sornione: ragazzi, meglio 3 di 4. Ne ho perse di partite con Boskov, ma senza mai perdere la leggerezza: quando un mercoledì ci era toccato recuperare una partita rinviata contro il Milan, ne avevamo presi 5, da campioni d’Italia. Amen. Come se niente fosse: pochi giorni dopo c’era la semifinale di Coppa dei Campioni”. Merito condiviso con Narciso Pezzotti. “Si completavano”, Vierchowod insiste sull’assistente che avrebbe seguito anche Lippi al Mondiale del 2006. “La parte tecnica e tattica in allenamento veniva lasciata a lui. Mentre Boskov era un maestro a lavorare sul rapporto con i giocatori”.
Il massimo per le grandi squadre. “Cosa volevi insegnare a Maradona o Van Basten? Il segreto era garantire certi equilibri e far sentire importanti tutti i ragazzi in rosa. Penso anche ad Eriksson”, conosciuto da Vierchowod sempre alla Samp. “Tatticamente un allenatore normale, ma altro ottimo gestore di talenti”.
L'ironia dei grandi
Dopo la Samp la carriera di Boskov planerà dolcemente. Roma, Napoli e un ultimo saluto a Marassi. Morirà poche settimane prima di compiere 83 anni per una terribile forma di Alzheimer, nel 2014. “Lo vidi per l’ultima volta qualche mese prima”, ricorda l'ex campione del Mondo. “A Genova, in una pizzeria che frequentavamo sempre. Era già ammalato. La moglie era scesa dalla macchina mentre lui rimase lì, così andai a salutarlo. Mi ha guardato e mi ha sorriso. Ma nello sguardo si capiva che cercava nella sua mente chi fosse quella faccia familiare. Non mi aveva riconosciuto. Un momento che mi è rimasto dentro”.
Lo ricordiamo noi, oggi e domani. “Boskov resterà per sempre il primo ad aver vinto lo scudetto e una coppa europea con la Samp: non so se ricapiterà mai più”. Oltre i risultati, il suo modo di relazionarsi con lo spogliatoio. “E la sua ironia”, chiude Vierchowod. “Ne ho avuti tanti di allenatori, una brutta sconfitta ci veniva rinfacciata anche per settimane. Come Boskov nessuno: perché il gruppo storico non se ne voleva mai andare da Genova?”. Squadra che vince non si cambia, direbbe Vujadin. E se perde, guai a farglielo pesare.