“Je suis Calabresi”. A casa di Arturo, un romano in Ligue 1
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Data: 08/01/2020 -

“Je suis Calabresi”. A casa di Arturo, un romano in Ligue 1

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Una mattina a Roma nella casa di Arturo Calabresi, difensore dell'Amiens e figlio di Paolo, stella del cinema italiano. "Ma non chiamatemi giocatore-attore".
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Una mattina a Roma nella casa di Arturo Calabresi, difensore dell'Amiens e figlio di Paolo, stella del cinema italiano. "Ma non chiamatemi giocatore-attore".

 

Collina Fleming, Roma Nord. La famiglia Calabresi è cresciuta qui. Sotto lo stesso tetto abitano un regista e un terzino, ma solo uno di mestiere prende a calci un pallone. “E non chiamatemi calciatore-attore, vi prego. Ho fatto solo una scena in Boris. Anche lì da figlio di mio padre”. Arturo Biascica per pochi fotogrammi, Arturo Calabresi dal 1996. Figlio di Paolo, indimenticabiile capo elettricista nella serie, ma anche Iena e attore nella vita di tutti i giorni.

A ognuno il suo palcoscenico. Per Arturo il fischio dell’arbitro ha sempre avuto più fascino del ciak. La faccia da cinema l’avrebbe, ma ha sempre preferito restare dietro le quinte. Ma soprattutto davanti al portiere. Ieri difensore centrale, oggi terzino destro. L’anno scorso a Bologna, oggi in Francia: SC Amiens, Ligue 1.  La sua nouvelle vague. “Un’esperienza bellissima in una piccola città della Francia settentrionale che vive per il calcio. Ha la cattedrale gotica più grande del Paese ed è piena di universitari”. La cultura non è un accessorio per Arturo. Parla un inglese perfetto e in poco più di cento giorni il francese è già a un buon punto. “A scuola l’altra lingua era il tedesco, ma sto recuperando”.

Nella sua prima stagione in Ligue 1, Calabresi si è guadagnato una maglia da titolare subito: 15 presenze e un gol, una media voto sempre oltre la sufficienza. L’Amiens è terzultimo, ma fino a poche giornate fa era la rivelazione. “L’ultima l’abbiamo persa contro il PSG. Mamma mia Mbappé, straripante. Neymar? Qualche volta ho preso la palla, più spesso le caviglie. Ogni tanto fa qualche tuffo, ci siamo un po’ beccati, però poi ci siamo scambiati la maglia. È bello sfidare gente così”.

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Arturo impara in fretta. Anche a smaltire le delusioni.  Cresciuto tra stadi e teatri, con la Roma nel cuore. Prima da tifoso insieme a papà. “Andavamo nei distinti. I primi ricordi sono dell’anno dello scudetto, gli ultimi quello dello scudetto mancato con Ranieri allenatore: che silenzio quel ritorno in motorino dopo la beffa di Roma-Sampdoria…”.
Poi da calciatore. “È la squadra che mi ha formato. Poi hanno fatto altre scelte, ma non è uno scandalo. Mica sono diventato Van Dijk dopo essere andato via. Per la mia crescita era razionale tagliare il cordone ombelicale”.

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Staccarsi da mamma Roma dopo quattro anni di giovanili e una prima squadra solo sfiorata. Ritrovarla nel giorno del debutto in serie A con la maglia del Bologna, da avversario nel settembre del 2018. “Un pomeriggio incredibile. Ero come in una bolla. La prima cosa che ho fatto in campo è stato dare una mazzata a Lollo”. Lorenzo Pellegrini, ragazzo del ’96 come Arturo. Compagno di gioventù, in giallorosso e in azzurro. Un amico vero. La persona più permalosa che conosca, ma anche una di quelle a cui voglio più bene. Vedi quella maglia? Me l’ha data quel giorno. Dopo che li abbiamo battuti 2-0”.

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Una vittoria, non una vendetta. Parola destinata a prendere polvere nel vocabolario di Arturo. Non fa parte del suo modo di essere. Sul tavolo della cucina ha altre maglie ammassate. Souvenir di campo, tatuaggi della memoria. Ce n’è un’altra della Roma. Ha sulle spalle il numero 16. “Daniele De Rossi è l’uomo e il calciatore che spero di diventare. Non ha mai avuto bisogno di atteggiamenti da bullo per rivendicare il suo carisma o il suo ruolo. L’attenzione che mette nei confronti del prossimo – chiunque esso sia – è la cosa che mi porto di lui sempre”.

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Con la maglia del Livorno e il numero 16 sulle spalle, Arturo ha segnato il primo gol da professionista nel settembre del 2015. Quel momento è incorniciato in un quadretto, vicino a una foto del fratello Agostino, “che si chiama così perché mio padre amava Di Bartolomei”. Fede giallorossa e non solo. Perché la maglia numero 33 indossata a Foggia e Bologna trova motivazioni celesti. Credere in Dio e nei propri mezzi, anche quando la strada sembrava in salita. Anche dopo quell’Europeo under 21 perso in casa. “Avevamo tutti i mezzi per vincerlo. Mi cade la testa a pensarci. Ci è mancato qualcosa per ottenere un risultato che ci saremmo portati dentro tutta la vita”.

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Un calo mentale, forse. Magari anche per quello Arturo sente il bisogno di approfondire il tema fuori dal campo. “Vorrei iscrivermi all’università per studiare psicologia, come ha fatto la mia ragazza. Ho il desiderio di spendere bene il mio tempo quando non gioco. Nella vita di un calciatore ci sono tanti momenti di solitudine, credo che sia necessario ritagliarsi interessi e tenere impiegata la mente”.

Saggezza di un ragazzo di 23 anni che il Bologna continua a seguire, con la possibilità di un controriscatto nel caso in cui i francesi esercitino il diritto di riscatto dopo il prestito. “Sono grato a Bologna. Mi ha accolto dopo che la Roma mi ha lasciato andare. Ora però pensiamo a salvarci con l’Amiens”.

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Sul terrazzo di casa Calabresi spunta il sole. “Si sta bene qui, eh?”. Non c’è nostalgia nei suoi occhi. Un ragazzo del ’96 è cresciuto senza muri, né frontiere. Né in orizzontale, né in verticale. Troverà il suo posto. In serie A, in Ligue 1 o magari in Premier League. C’è un percorso da fare, insieme a chilometri sulla fascia. Il suo film è appena iniziato.



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