“I due gol all’Arsenal e i consigli di Mazzone”, la ricetta di Bellucci per l’Albissola
L’Albissola due anni fa era in Promozione, ora gioca il campionato di Serie C. Le prime vittoria portano la firma in panchina di Claudio Bellucci. Cresciuto a Roma, ma adottato dalla Liguria, nella quale si è trasferito per inseguire il sogno di calciatore
“Essere allenatore è proprio brutto, anzi bellissimo”. Tutto l’opposto di tutto. Così come l’inizio di stagione dell’Albissola. Due pareggi nelle prime otto partite, poi 6 punti nelle ultime due. Le prime vittorie dell’Albissola in Serie C sono firmate in panchina da Claudio Bellucci, sulla panchina ligure dal 23 ottobre. Già perché l’Albissola ha visto la luce solo nel 2010, anno in cui Claudio giocava la sua ultima stagione da giocatore. Un legame forte quello tra Bellucci e la Liguria, da quando a 14 anni si trasferì a Genova per giocare nella Sampdoria.
Lui cresciuto nella borgata di San Basilio a Roma e nella Lodigiani, partì giovanissimo per inseguire il sogno: “Ce l’ho fatta grazie alla mia famiglia, una di quelle tradizionali e semplici”.
Lui le difficoltà dei più giovani le ha vissute sulla sua pelle e cerca ora di risolverle nella sua formazione: “Siamo la squadra più giovane del campionato, abbiamo tanti classe 2000. Questa è una piazza unica, sembra fatta a misura di giovane. I tifosi vivono con lo stesso entusiasmo dello scorso anno le partite, facendoci sentire il loro calore ogni settimana”.
“La parola magica? Equilibrio, non prendere gol fa sempre bene, dà forza a tutti. Però poi siamo portati a vincere le partite. Mi dispiace vincere facendo un gol in più degli altri, avendo però commesso tanti errori. Il lavoro difficile dell’allenatore è battere il tasto sullo stesso argomento anche se si perde. Per noi è stato un momento di depressione, non era facile rimotivare i giocatori. Li ho messi tutti sulla stessa linea, il giovane al livello dei più esperti. Quando ci sono tante sconfitte consecutive, il problema è far capire la strada giusta.”.
L’unico ingrediente per far crescere i più giovani è la dedizione e la cura dei particolari: “Da me fino ad arrivare al magazziniere c’è un lavoro costante e settimanale. Questi ultimi risultati sono frutto del lavoro. Non dobbiamo mai pensare di essere appagati, abbiamo fatto tanta fatica, ma ci vuole un attimo per tornare da dove siamo partiti. I ragazzi sanno da dove arrivano e conoscono già le conseguenze se dovessero abbassare la guardia”.
È un Bellucci con le idee chiare, merito degli insegnamenti dei grandi maestri che nel corso della sua carriera lo hanno forgiato: “In panchina, in allenamento e negli spogliatoi sono schietto e leale con i giocatori. Me lo ha insegnato Mazzone: avere rispetto soprattutto di chi non parte dall’inizio è una cosa che mi porto dentro essendo stato calciatore. Se un giocatore non gioca so che è arrabbiato, deve esserlo con me, non con i suoi compagni. Mazzone è stato un maestro e la sua carriera lo dimostra. Ha allenato per 40 anni e per farlo devi essere un allenatore innovativo ogni singola stagione. Per le questioni tattiche e di campo invece sento ancora Ulivieri, discutiamo spesso sui vari pensieri di gioco”.
Alti e bassi, momenti belli ma anche quelli meno, con l’Albissola come nella sua carriera: “La gioia più grande è stata la doppietta all’Arsenal nel ’95 con la Sampdoria, ma anche la prima partita con il Napoli in Serie A. Lì ho capito che quello era il mio punto di arrivo, che ero un vero giocatore, con la maglia numero nove e nella squadra che tifo. Poi anche la rovesciata con la maglia del Bologna contro il Verona, una cosa fuori da ogni logica e il ritorno alla Sampdoria nel 2007”. Un amore quello per il blucerchiato che è andato oltre un addio forzato: “Tornassi indietro non andrei via dalla Samp quando ebbi una discussione con Del Neri, meno male avevo 34 anni altrimenti non me lo sarei perdonato”.
Bellucci che vive ancora a Bogliasco, lì dove si allena la Sampdoria: “Dopo aver smesso da calciatore, ho cominciato ad allenare dai piccoli, prima quelli della Lodigiani e poi alla Sampdoria. Ho fatto 6 anni di settore giovanile, ho avuto la fortuna di stare nello staff di Zenga, quando mi chiese di allenare l’attacco. Ho imparato a gestire giocatori di carattere: Cassano, Muriel, Barreto, Viviano, elementi forti e con grosse personalità. Allenare un settore giovanile e allenare i grandi non è la stessa cosa, così come passare da giocatore a allenatore non è facile. Cambia completamente il punto di vista. Ti devi calare nella parte che qualsiasi cosa anche la più semplice va spiegata, perché quello che è dentro la tua testa non lo è in quella dei calciatori”.
Il bello e il brutto di essere allenatore: “Ti dà soddisfazioni come te le toglie in un momento. Non dipendi da te stesso in prima persona, ma dai calciatori. Tra 10 anni spero di essere ancora su una panchina. Penso di avere la forza per continuare a fare l’allenatore a lungo”. Ad Albissola ha appena cominciato e i risultati già si vedono. La ricetta Bellucci sta funzionando.