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Passione Delio: da Salerno al tuffo nel derby, Rossi fa 60

Dal cappellino alla cravatta, l’outfit evolve ma l’entusiasmo è quello di sempre: “Cos’altro potrei fare, se non l’allenatore?” In un minuto, i 60 anni di Delio Rossi

Quella volta la Lazio aveva appena vinto il derby: Ledesma (gol della vita), Oddo, Mutarelli. Un 3-0 pulito, da sfavorita. Andava festeggiato per tutta Roma. A tarda notte un uomo si avvicina al fontanone del Gianicolo. Si spoglia, si tuffa, allarga le braccia al cielo. Non è certo il primo, di quel 2006 con l’Italia campione del mondo. Forse però è l’ultimo. Ormai siamo a dicembre: “Era un voto, l’acqua era fredda”, spiegherà poi Delio Rossi. La guida di quella Lazio. E pazienza l’aplomb: “Mi dispiace che sia diventato un caso mediatico. Era un fatto privato.

Ai tempi di Salerno lo chiamavano ‘Profeta’, ma l’allenatore che oggi compie 60 anni è sempre stato un passionale. Impulsivo, oltre che stratega. Nel bene e nel male: i cazzotti rifilati a Ljajic per una sostituzione mal digerita sono diventate immagini tristemente cult, nella Serie A dei primi anni 2010. E tra gli ultimi highlights di Rossi fin qui. A Firenze arrivò l’esonero immediato, più bassi che alti con la Samp, una promozione volante a Bologna (in appena 7 partite, la terza in carriera dalla Serie B) e l’esperienza esotica al Levski Sofia. “Per farmi venire in Bulgaria mi corteggiarono più di mia moglie”.

La scorsa primavera il ritorno a Palermo dopo 8 anni, stroncato dal fallimento dei rosanero. Se tornerò ad allenare? So fare solo questo, non so riciclarmi in altra maniera”. L'attesa di una nuova chiamata, ognuno ha il suo percorso. Alla sua età Sarri è all’apice della carriera. Eppure, quando il numero uno della Juve sedeva sulle panchine di Eccellenza, Delio faceva già parte di quella generazione di ‘allenatori col cappellino’ (lui, Cosmi, Iachini) capaci di lasciare il segno nel calcio italiano. Anche a livello di immagine – chissà, magari Maurizio prendeva appunti –, soprattutto per il rapporto viscerale con la piazza.


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Cittadinanza onoraria, retrocessione tra gli applausi, la Coppa

Per l’uomo di Rimini, onesto centrocampista degli anni ’80 (fino alla Serie B con il Foggia, prima grande passione), la svolta si chiama Salernitana. Porta la squadra in B nel ’95, poi in massima serie dove mancava da 50 anni. Quando nella stagione del ritorno (1998/99) il presidente Aliberti decide di esonerare l’allenatore dopo un brutto avvio di campionato, i tifosi si ribellano e Rossi – almeno per qualche giornata – rimane al comando. Oggi è cittadino onorario di Salerno, sarà capace di ricreare il feeling anche altrove: da Lecce a Bergamo, dove nel 2005 tutto lo stadio applaude la retrocessione dell’Atalanta (Rossi, da subentrato, aveva raccolto 28 punti in 24 partite).

Perché oltre all’intesa c’è il metodo. Fedele alla difesa a 4, i meriti di aver lanciato Bojinov in campo e Marco Giampaolo in panchina, suo vice ai tempi di Pescara. Per questo, dopo la standing ovation di Bergamo, l’allenatore di provincia sbarca nella capitale. Si fa grande con la Lazio. Ad oggi è l’ultima guida biancoceleste in Champions League (ferma 2-2 il Real Madrid) e il primo ad alzare un trofeo nell’era Lotito.

L’unico della sua carriera, al quarto anno a Roma. L’apice. È la Lazio di Rocchi, Zarate e Pandev, in finale di Coppa Italia c’è la Samp. Si gioca in casa, all’Olimpico: 1-1, supplementari e rigori. Davanti a 68mila spettatori, Dabo infila quello decisivo. Scatta la corsa di Delio, le lacrime: “Significano passione per questo lavoro, da parte di chi da tanto vuole ottenere anche dei risultati”. Ha vinto, ormai è in giacca e cravatta. Ma la parola d’ordine è sempre quella di chi, in altri panni, proprio non riesce a vedersi. Se deve toglierseli, è per un tuffo d'amore in pieno inverno.


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