L’omosessualità nel calcio è un tabù. Vi racconto il mio sogno
Agata Centasso ci racconta come il mondo del calcio femminile sia più inclusivo rispetto alla maggior parte dei vari contesti della società
Mentre in Senato si festeggia per l’affossamento di una legge contro l’omotransfobia e le discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale e la disabilità, nel resto del mondo si esulta per traguardi di umanità.
“Sono gay!”, il coming out dell’australiano Josh Cavallo nel calcio maschile è stato infatti vissuto come un momento di svolta per un ambiente che ha sempre avuto paura di esporsi. Non voglio sempre fare paragoni con il nostro ambiente femminile, ma in questo caso ritengo sia doveroso e anche illuminante. Almeno spero. Premessa: ci sono tante calciatrici donne dichiaratamente omosessuali. E forse anche per questo, tendenzialmente, siamo spesso apostrofate come “quelle quattro lesbiche…”. Così, quando qualcuna si dichiara gay non sortisce lo stesso stupore e non fa praticamente notizia. Forse perché nell’ottica comune, in uno sport dove regna il maschilismo, una donna che lo pratica è più normale che non sia etero.
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La verità è che il mondo del calcio femminile è da sempre più inclusivo e può vantare una apertura mentale “avanti anni luce” rispetto alla maggior parte dei vari contesti della società. Per noi calciatrici, la normalità é che una ragazza venga alla partita per vedere la propria partner giocare. O che dopo l’allenamento passi a prenderla per poi bere qualcosa tutte insieme. Come è altrettanto normale che alle cene sociali, come io porterei il mio ragazzo, anche la compagna di squadra porti la propria consorte. Tutto questo avviene, ve lo assicuro, nella più totale spontaneità e serenità. Possiamo vivere in una realtà di benessere sociale, equità e perfetta integrazione, così ideale che sentendo alcune notizie ci chiediamo se la nostra sia invece una realtà parallela.
Nel mondo sportivo infatti, e soprattutto nel calcio, l’omosessualità rimane un forte e radicato tabù a conferma dello stereotipo che dipinge l’atleta maschio, e in particolar modo un calciatore, come associato a caratteristiche quali forza e mascolinità. La maggior parte degli atleti gay è costretta a nascondere il proprio orientamento sessuale perché il farlo sapere comporterebbe un grave danno di immagine con grosse ripercussioni sulla carriera. Ma anche per evitare di essere vittime di battute e/o scherno o ostilità negli spogliatoi. Come non citare il famoso mito della saponetta in doccia? Non stupisce quindi che la maggior parte degli sportivi che ha fatto coming out ha scelto di farlo appunto una volta terminata la propria carriera.
Nello sport “maschio” per eccellenza, per un calciatore dichiarare la propria omosessualità è un rischio troppo alto. Per una calciatrice è più semplice e siamo sicuramente sottoposte a molte meno pressioni. O forse siamo anche più coraggiose e abituate a combattere da sempre per esser riconosciute come professioniste, per la parità salariare e sconfiggere tutti i pregiudizi di cui ho già molto parlato.
Si discute spesso sul ruolo dello sport e per molti non dovrebbe trattare questioni politiche. Per me invece Il calcio è un gioco ma non è solo un gioco. Lo sport deve avere una funzione sociale e deve essere un mezzo per promuovere valori positivi. Sogno di giocare una partita il cui significato non sia il semplice rincorrere una palla su un terreno verde ma sia anche inclusione, amicizia e rispetto.
In tante città d’Italia moltissime persone sono scese in piazza per protestare dopo la bocciatura da parte del Senato del ddl Zan, evidenziando una forte scollatura tra la gente e la politica. Durante la manifestazione tra i vari slogan di vergogna e indignazione, sono state accese migliaia di luci dei cellulari.
E se ne intravede la luce, di una aquisizione di consapevolezza, di un rudimentale ed impacciato incipit di cambiamento, di una controtendenza, di un indebolimento del culto sessista, omofobo e discriminatorio. In fondo al tunnel, si inizia forse a vedere una scia che illumina il percorso.
E mentre il cielo si tinge di arcobaleno, ci tengo a chiudere con le parole dell’arbitro inglese James Adcock, altra eccezione in un contesto di paura e fragilità.
“Trattami come tratteresti chiunque altro. Sei lì come tifoso, giocatore o allenatore e giudica le mie prestazioni. Non arbitro perché sono gay, ma solo perché sono arbitro: trattami come un normale essere umano”. Ci riusciremo mai?