Inno all’armata e musica rap: Semin, l’allenatore del Lokomotiv nella storia
Pensate di essere un giocatore. Magari russo. Pensate di entrare nello spogliatoio del Lokomotiv Mosca. E di sentire l’inno dell’Armata Rossa. Politica? Imposizioni dall’alto? No, nulla di tutto questo. Solo senso di appartenenza. “Victory day” è diventato Victory Season: perché la vittoria del titolo nella stagione 2017/2018 (il terzo della storia dei “ferrovieri”) è stata qualcosa di incredibile e porta il ritratto di un condottiero senza tempo: Yuri Semin. Non è un allenatore qualunque, lo chiamano “il padre dei giocatori”, ha voglia di viaggiare, di conoscere, di scoprire. Ha 72 anni, si sente un ragazzino. La vita gli ha concesso tanto, lui ha fatto il resto.
La sua carriera? Per quella basta guardare Wikipedia: è alla sua quarta esperienza al Lokomotiv. C’era già quando nel 1993 affrontava la Juventus nell’ultimo precedente con i bianconeri: era la Coppa Uefa. Vinse sempre la Juve, superò il turno. Ma non importa: Semin sarebbe rimasto in panchina per altri 12 (dodici) anni. Ma questa è solo la superficie. Perché la vita di Semin è tutta una storia che comincia da quando su un prato calciava il pallone che gli lanciava la mamma.
Gli piaceva il football, l’hockey, il basket, pure il tennis. Sceglie e non cambia più idea. A 16 anni comincia la sua carriera da centrocampista. In Russia diventa un giocatore importante, che alterna il calcio alla carriera militare. Gli piaceva quella vita, gli è sempre piaciuta. “Ma se pensate che sia un nostalgico, sbagliate di grosso. So solo che da giovane ho vissuto bene, ero felice”, che è poi il motore di tutto.
Conosce la moglie dopo pochi anni da quando comincia a giocare, quando si traferisce a Mosca. Nel 1965 era già una città strana, enorme: tanti cambiamenti in atto, si stava arricchendo. Era già parecchio nel panorama Mondiale, voleva di più. L’incontro è avvenuto in un bar: “Vuoi parlare con me?”, le chiede. Lei risponde di sì, si conoscono. E dopo cinquant’anni stanno ancora insieme. Festa grandiosa per le Nozze d’Oro? Macché, non c’è stata: hanno mangiato in casa, loro due soli. Una coppia felice, riservata. Che ha trovato un equilibrio anche nei momenti di maggiore solitudine.
Come quando si perde, lì Semin non vuole sentire ragioni. Vuole stare da solo, lei lo rispetta. Sarà anche per questo che lo ha sempre seguito in tutte le sue avventure. La prima, vera, è quella che lo porta nel 1991 in Nuova Zelanda, due anni dopo la caduta del muro. C’era bisogno di cambiare aria, di provare qualcosa di nuovo. Il coraggio non gli è mai mancato, così come la curiosità: non vuole precludersi nulla. Non a caso è stato lui, tra l’89 e il ‘90, ad avere allenato l’unico giocatore statunitense nella Russia Sovietica: Dale Mullholland, proprio al Lokomotiv (atto primo). Ci sarebbe da scrivere un romanzo pure su di lui.
Storie tante, voglia di imparare ancora di più. “Victory day” si accompagna alla musica rap che mettono i suoi giocatori negli spogliatoi: un ritmo diverso, che gli piace molto e che unisce il presente a una tradizione. Ora sta anche pensando di imparare una nuova lingua, lo spagnolo, per andare in Peru: è il viaggio che ha in mente di fare dopo questa stagione, un altro tassello da inserire in tutte le sue esperienze in giro per il mondo. Si ricorda del Kazakistan (quando giocò nel Karat), ma anche delle Bermuda, della Nuova Caledonia, isole dove ha lasciato il cuore. Gli piace il mare, guardare l’orizzonte da lontano, per provare a superarlo.
Sentirsi ragazzini è la vera molla per non smettere. Quella che ti porta, da manager plurititolato, a prendere un volo di seconda classe per arrivare il prima possibile a Torino e studiare gli avversari. Yuri Semin è (anche) questo. Il merito? “Tutto di mia mamma”, ha sempre detto. Aveva 94 anni quando nel 2007 si spense, mantenendo però la sua energia di sempre. Non aveva mai smesso di lanciargli il pallone. Come quando era bambino.