Un pugno alzato per dire addio, anche a quel mondo rossonero che tanto lo ha conquistato: il Wilkins milanista nel segno del 3, con la passione per S.Siro
Lo chiamavano rasoio, per un motivo su tutti: “Quando lanciava gli attaccanti, lo faceva con una profondità propria a pochi“. Tagliava in due le difese, Ray Wilkins: storia e ricordi di un calciatore e di un calcio diverso, vissuto in Italia con la maglia del Milan pre epoca degli invincibili, che ora lo piange, all’età di 61 anni, arresosi alle conseguenze dell’attacco cardiaco sofferto. Si è fermato il cuore, in una vita improvvisamente iniziata a scorrere, per 4 giorni, su una lama, fino a tagliarsi: a non svanire mai, al suo interno, saranno i ricordi eterni del triennio vissuto in rossonero, custoditi gelosamente all’interno di quell’organo che ne rappresentava spesso il modo principe di vivere le partite in campo.
Ha salutato tutti con un pugno alzato, Ray: “The fist“. Stesso gesto ripetuto verso i tifosi per festeggiare ogni gol segnato dal Milan, condiviso con un altro fratello della Union Jack come Mark Hateley, abbracciando quello stadio che lo ha sempre lasciato basito per tifo e bellezza: questione di differenti abitudini, di una cultura inglese in un popolo mai presente un’ora e mezza prima della partita, allo stadio, a sostenere già i propri idoli. Ogni walkaround sul prato di San Siro, per Wilkins, assumeva i contorni di un’emozione che non sarebbe mai stata dimenticata: piccolo, grande polmone di qualità ed energia con la maglia numero 8 sulle spalle incapace di realizzare, almeno inizialmente, la portata dell’esperienza successivamente vissuta a livello internazionale, pur arrivando da un club tradizionalmente vincente come il Manchester United.
Un blitz dell’allora presidente Farina in Inghilterra per portarlo a Milano, nel segno del tre: come i miliardi del costo dell’operazione, le stagioni (dal 1984 al 1987) spese in rossonero e i gol con il Milan segnati. Anni “di partite a scacchi”, con compagni ed avversari di assoluta qualità, in un calcio italiano che aveva già parzialmente conosciuto in uno dei giorni chiave della propria carriera: il debutto con la maglia della Nazionale Inglese, il 28 maggio del 1976, nel match amichevole proprio contro la Nazionale azzurra. Destino che lo ha portato a scoprire la Serie A ad alti livelli, imparando l’arte del passaggio grazie a Liedholm, pur conquistando in rossonero solo un “Mundialito” (nel 1987) prima di lasciare tra gli applausi di tutti: impossibile non apprezzarlo, per personalità e per quella voglia di ambientarsi immediatamente nell’allora nuova casa a suon di “gelato” e “spaghetti” come prime parole italiane apprese, scoprendo poi interamente la lingua e un modo di vivere a 360° (oltre al calcistico) non indifferente. Sommerso dal calore di uno stadio che tanto passionale e incantevole non si sarebbe mai aspettato, nonostante i racconti di papà…
Questione di partite di beneficienza, post II Guerra Mondiale, con Wilkins Sr. schierato da titolare nella squadra messa in campo a San Siro dalla…Squadra dell’esercito inglese. Altro tipo di partite e (stavolta) nessuna battaglia, ma solo ed esclusivamente ricordi oggetto di consigli: quelli decisivi dati a Ray dal padre stesso, prima di sposare la proposta rossonera, per non avere il minimo dubbio a riguardo, anche grazie al teatro di ogni sfida da vivere. E così è stato. Al pari di un idolo scelto, come George Best, con il quale Wilkins ha sfortunatamente condiviso anche una parentesi legata all’alcol, tentativo disperato di via d’uscita da una depressione che ne ha caratterizzato tanti anni di vita: risalire e rinascere, almeno parzialmente, non è purtroppo bastato. Si è fermato il cuore: non i ricordi che Raymond Colin Wilkins ha lasciato e che porterà, per sempre, dentro se stesso. Salutando tutti così, con “The fist“: un pugno alzato al cielo per toccare, un po’ più da vicino, quell’affetto rossonero che tanto lo ha conquistato.