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Un incidente gli ha cambiato la vita, oggi ‘Toni’ Mohamed stupisce col Celta

Tra le squadre capaci di sorprendere in questo avvio di stagione, che ora devono confermarsi e provare anche a migliorare quanto di buono fatto finora, c’è anche il Celta Vigo, che in Liga è appena dietro Real Madrid e Barcellona a punteggio pieno. Sette punti in tre partite con 5 gol fatti e 2 subiti. Giocherà la prossima gara lunedì in Catalogna contro il Girona, guidata da uno degli allenatori probabilmente più interessanti del panorama europeo e non solo.

Quando si osserva Antonio Mohamed in panchina la prima cosa che si nota è certamente il suo aspetto diverso dai canoni: fisico imponente quasi da buttafuori o, come qualcuno lo ha battezzato su Twitter dopo le prime partite, da gangster americano. Per più di 15 anni è stato un attaccante argentino che ha girato il Sudamerica lanciando mode – dicono negli anni ’90 sia stato tra i primi a portare i capelli tinti con i colori più improbabili, i tatuaggi e a indossare abiti a dir poco appariscenti in qualsiasi occasione, anche sei il capo che più lo contraddistingueva erano gli stivali bianchi. Tutto l’opposto di quello che oggi si vede in panchina, dagli abiti di sartoria con dettagli in seta, gli occhiali da sole (sempre presenti) e le scarpe a punta.

Al collo un immancabile rosario, un amuleto con un significato molto più profondo di quanto possa sembrare. Apparteneva al figlio Faryd, che Mohammed porta tatuato anche sul braccio destro. C’è uno spartiacque nella vita dell’allenatore del Celta, che nel 2006 perse proprio il figlio di nove anni in un incidente stradale mentre tornava in macchina con lui dalla gara dell’Argentina al mondiale in Germania. Lo stesso Antonio trascorse molte settimane in ospedale con il rischio di perdere una gamba mentre Faryd non riuscì a sopravvivere. Un incidente causato da un’auto che viaggiava a oltre 200 km/h, un dolore che gli ha cambiato la vita e lo ha costretto a immergersi nel calcio per combattere la mancanza e l’ingiustizia di un figlio perso troppo presto.

Così è iniziata la sua carriera, sotto gli occhi dell’amico Maradona presente in tribuna in occasione della prima partita con Antonio in panchina dopo la tragedia. “Mio figlio avrebbe voluto vedermi allenare”, ha raccontato lui stesso, che ha diviso i primi anni della sua carriera tra l’Argentina, paese in cui è nato, e il Messico, dove si è costruito una reputazione e ha fatto anche l’apprendistato necessario. Tifa Huracan, ma più che un tifo è un amore folle, tanto che Mohamed è convinto che un giorno sarà lui il presidente del club. Lì è stato allenatore e prima ancora giocatore. Quando vestiva la maglia del Boca, addirittura si rifiutò di segnare alla sua squadra, scatenando le ire di Oscar Washington Tabarez che finì per sostituirlo all’intervallo.

All’Huracan ha dedicato poesie, ha promesso lealtà eterna spiegando che prima di pronunciare le parole ‘mamma’ e ‘papà’ – da piccolo – ha detto quella del suo club; e ogni giorno ringrazia proprio i suoi genitori per averlo fatto nascere tifoso ‘quemero’. Antonio è argentino, nato nel barrio de Parque Patricios a Buenos Aires, ma le sue origini vanno ricercate anche in Arabia, Jugoslavia e persino in Cile, tanto che Mohammed in realtà sarebbe il suo primo nome. Quando venne registrato all’anagrafe dopo la nascita, però, i funzionari argentini pensarono che fosse il cognome. E così fu. Da tutta una vita lo chiamano ‘il turco’, ma da quando è arrivato a Vigo le cose sono cambiate. Lì i turchi sono i tifosi del Deportivo La Coruna e per evitare qualsiasi contrasto calcistico in Spagna – dove sta vivendo la sua prima stagione come allenatore – a chiesto a tutti di chiamarlo Toni, “solo Toni, è meglio così”.

Nell’ultima partita giocata ha sconfitto 2-0 l’Atletico di un altro argentino (suo amico) 
che per alcuni aspetti gli somiglia come Diego Pablo Simeone. Contro il Girona e per il resto del campionato, Toni intende continuare a stupire. Con la sua storia, il suo stile di gioco e anche quello di cui tanto si parla quando entra in campo per accomodarsi in panchina o si agita per spronare i suoi ragazzi. Con l’ambizione di restare lassù il più a lungo possibile.