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Tanti auguri Fabio Grosso: una corsa, ormai storia, metafora della vita

Immaginiamola come una corsa. Che parte da lontano, lontanissimo, e arriva vicino a noi, noi tutti. Immaginiamola come un flash. Che fotografa tante piccole istantanee e le riunisce in un unico, coloratissimo, capolavoro. Immaginiamola come l’incredulità. Di chi guarda il mondo attraverso una soffitta e si ritrova, nel giro di dieci anni, a dominarlo, quel mondo. Immaginiamola come non se la sarebbe immaginata mai nessuno. Nemmeno lui. Fabio Grosso.

La più classica tra le classiche e la più bella delle belle storie di calcio italiano. Di quelle che fanno sognare i bambini, se ad esempio il caso vuole tu abbia otto anni in una calda estate del 2006. Non c’è altra volontà onirica se non quella di diventare, da grande, un Grosso. Perché in principio, Fabio, non era un predestinato. Non la gavetta dei talenti, attraverso trafile di giovanili e tavole già imbandite. Ma quella degli altri, i normali. Che cominciano in provincia, periferia, e lì restano per tanto tempo.

Sono gli anni dell’Eccellenza, delle fredde mattinate domenicali, di sudore, zolle, paesini e paesaggi. Quanto spazio sulla trequarti, quanto sfogo per la fantasia. Ma non faceva il terzino? Sì, certo. Ma prima il fantasista, e il goleador. 47 reti, nella Renato Curi, portano il suo nome tra 94′ e 98′. E segna che ti risegna, qualcuno ci fa un pensierino. Agli sgoccioli del secondo millennio, siamo già in C2. Con la casacca del Chieti addosso e lo spazio tra metà campo ed area a sua disposizione.

Arriva la promozione, il salto di categoria. E di osservatori attenti, girovaghi, ce ne sono tanti. Quelli del Perugia lo cercano, persuadono e poi regalano a Cosmi. Che su di lui, in Serie A, punta, non poco. Adattandolo, però. E procurandogli quella che poi sarà la svolta della carriera. Non più trequartista dietro le punte, ora esterno nel 3-5-2. E piano piano da tornante, si passa a fare il terzino. Con ampie libertà di spinta, sia chiaro. Perché a fondo campo, non puoi privarti del mancino di un ex fantasista. Ma con un rigore e un senso della posizione propri di un difensore.

I primi anni del nuovo millennio hanno il sapore della Serie A e il colore della Nazionale. Non soltanto per lui, anche per altri dalla sorte affine. Che una romantica e assurda coincidenza fa convergere nello stesso punto. Quello splendido crocevia che prometterà futuro roseo: Palermo. Tre anni, intensi, racchiusi in altrettanti lemmi: Serie B, Europa, Mondiale.

Ed è nell’ultimo, in particolare, che si intrecciano essenza ed esistenza di Grosso. Quel capitolo finale che distingue una bella storia da una da raccontare e ricordare. Il flash che condensa le immagini, la corsa di lui e noi tutti dietro, l’incredulità di chi mai se lo sarebbe immaginato. Tutto lì. Nell’urlo, puro, dopo il gol alla Germania. Nel dito che grida più forte di lui. “Non ci credo! Non ci credo!”. E quel mancino a girare da trequartista puro, la fuga sulla fascia tipica del terzino. Dritto, così, fino all’apoteosi. All’ultimo scatto dopo il rigore in finale, alle braccia al cielo, al rumore (esiste melodia più dolce?) del pallone che graffia la rete. È, sono, siamo campioni del mondo.

Il resto del libro, della corsa, dei flash sanno ancora di storia, successi, trofei. Parlano il francese di Lione, si vestono di nerazzurro e bianconero. E ancora, portano la divisa da allenatore e siedono sulla panchina della Juventus Primavera. Ma a 39 anni appena compiuti, c’è ancora tanto da raccontare. E tantissimo da correre. Dopo tutto, l’insegna la storia, la sua vita sua. Immaginala come una corsa. E corri.

Nicola Iuzzolino