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Simone e Pippo​. Perché essere un Inzaghi, oggi, è qualcosa di magico​

Essere un Inzaghi, oggi, è qualcosa di magico. Mamma Marina e papà Giancarlo possono guardarsi negli occhi, sorridere e godersi il momento. Filippo e Simone, i loro figli, sono i fratelli più forti del calcio italiano.

Pippo, il primogenito, ha battuto l’Empoli e lo ha agganciato in testa alla classifica della serie B; il più piccolo, invece, una settimana fa ha battuto la Juve a Torino. E si è ripetuto a Nizza giovedì. La sua Lazio è terza in Italia e a punteggio pieno in Europa. Marina e Giancarlo sanno che non è un caso il loro successo. Fin dai tempi di San Nicolò, provincia di Piacenza: bambini felici solo con un pallone fra i piedi. Il gol a fare da spartiacque tra la gioia e la tristezza.

Soprattutto per Filippo, arrivare primo, sul pallone o in classifica, è sempre stato una questione di felicità. Forse anche per questo i suoi 316 gol da professionista sono sempre stati festeggiati in modo elettrico. Una liberazione, una priorità, un obiettivo raggiunto. Da allenatore però il campo ha una prospettiva diversa. E, se vuoi arrivare primo, i gol bisogna primo di tutto non prenderli. Pippo, o Filippo come direbbe mamma Marina, ci ha messo poco a imparare. Il suo Venezia, dopo 10 giornate, guida la B e con 7 reti subite è la squadra meno battuta del campionato.

Un paradosso pensando alla sua carriera. Oppure, semplicemente, una naturale conseguenza di una maniacale predisposizione al lavoro. Dalle diete ferree alla conoscenza individuale dei giocatori. Quando Tacopina lo ha chiamato a guidare il Venezia in LegaPro, nell’estate del 2016, si aspettava un rifiuto. Sbagliava. Pippo conosceva benissimo quella categoria e i suoi calciatori. Ha costruito una squadra fortissima, vinto il campionato in carrozza e festeggiato, letteralmente, in gondola. Ripartire dal basso, senza paure, dopo la delusione con il “suo” Milan. Forse era troppo presto o forse non c’era molto da fare. Inutile chiederselo. Non è da Inzaghi l’arte del rimuginare. Simone non si è mai preoccupato di essere stato scelto in extremis dopo il dietrofront di Bielsa. Vincere, o prepararsi per farlo, quello sì, è da Inzaghi. Papà Giancarlo quest’estate faceva la spola fra i ritiri dei suoi ragazzi in Cadore: il Venezia a Sappada, la Lazio ad Auronzo. Pippo e Simone separati da una trentina di chilometri, all’alba di una stagione che forse solo loro potevano immaginare già così.

Eppure in quei giorni di luglio, entrambi hanno iniziato a costruire due gruppi solidi, sinceramente legati alle loro guide. Allenatori che festeggiano i gol dei loro ragazzi come se avessero ancora un numero e il cognome sulle spalle. Amano i loro giocatori e sono ricambiati.

Preparazione tattica e lavoro psicologico di altissimo livello. Basta prendere, uno per tutti, l’esempio di Luis Alberto nella Lazio di Simone. Comparsa nella stagione scorsa, crack assoluto in questo. Merito suo, ma anche di chi ha saputo lavorare sulla testa dello spagnolo, trovandogli una collocazione in campo perfetta.

Simone, detto “almanacco” per la sua enciclopedica conoscenza del calcio, è in questo momento una sorta di Re Mida. Anche a Nizza, i suoi cambi hanno cambiato volto alla gara. “È uno degli allenatori più forti d’Europa”, ha detto in settimana suo fratello. Un giudizio che dice tutto sul loro rapporto. Zero invidie, nessuna competizione familiare. Anche se forse Pippo segretamente medita ancora la vendetta di quel Lazio-Milan primavera del marzo 2013. Si giocava il torneo di Arco: 2-0 per i ragazzi biancocelesti di Simone, primo e unico confronto diretto tra i due.

Sono passati quattro anni e tante panchine da professionisti: 62 per Simone, 100 per Pippo, festeggiati da primo in classifica in una Venezia che non aveva mai assaporato questa gioia nel nuovo millennio. Marina e Giancarlo possono sorridere. E sperare che la rivincita di Arco avvenga presto. Magari già dalla prossima serie A.

Claudio Giambene