Sibi, che storia! “La mia speranza in un barcone. Ora il calcio a Verona”
La ricerca della felicità non è un film, non è uno slogan propagandistico, non è niente di tutto questo. La ricerca della felicità è un diritto inalienabile. Pensate se domani un signore viene da ognuno di noi, ci mette la mano sulla spalla e ci dice, ‘bene Lorenzo, Marco, Andrea o chi che sia tu non puoi più inseguire i tuoi sogni, perché io ho deciso arbitrariamente così’. Che senso avrebbe, a quel punto, la nostra esistenza? Ma, soprattutto, quanto brutale sarebbe una frase del genere?
Non è esempio totalmente decontestualizzato dalla realtà. Perché noi, troppo spesso, ci arroghiamo la stessa facoltà del fantomatico ‘signore oscuro’. Senza guardare al di là, chiusi in quelle quattro convenzioni che crediamo siano giuste, invece sono soltanto le più convenienti. Ma guardare al di là è difficile, perché l’attività che ne è sottesa è così anacronistica ormai… Proviamo ad ascoltare, in silenzio. Ascoltiamo in rigoroso silenzio la storia di Sibi Sheikh, portiere classe ’98 della Virtus Vecomp Verona (Serie C girone B).
Non parla ancora benissimo l’italiano, ma riesce a farsi capire. Ha una grande qualità, il sorriso. Di quelli che ti fulminano, ti trasmettono tanto, più di mille parole. Tra una chiacchera e l’altra prevalentemente in inglese, mi lascia un sorriso che mi fagocita in seimila domande esistenziali. “Mi chiamo Sibi, ho vent’anni e vengo dal Gambia. Dal 2015 sono in Italia. Dell’Italia mi piace tutto, vivo a Verona che è una città bellissima. Gioco a calcio e – racconta Sibi ai microfoni di GianlucaDiMarzio.com – un giorno spero di arrivare ai massimi livelli. Non lo so se ci riuscirò, ma io guardo sempre avanti. Non voglio più guardare indietro, non voglio più”.
Questo ‘non voglio più’ risuona, rimbomba forte nella piccola stanza. Perché noi quando guardiamo indietro, alla nostra infanzia, sorridiamo. Ci lasciamo avvolgere e trasportare in una marea di ricordi che ci ammaliano tre metri sopra il cielo. Sibi no, ‘non voglio più guardare indietro’. La sua risposta mi spiazza, provo – anche un po’ fastidiosamente a dir la verità – ad insistere… “Non voglio parlare della mia infanzia. Ho tanti, troppi ricordi nella mia testa. Ma l’unica cosa che ho sempre saputo è che sono sempre stato un buon portiere, fin da piccolo”. Sorride malinconicamente, vorrei tanto riuscire ad andar dietro quel sorriso. Mi fermo.
“Poi un giorno, a sedici anni, sono partito dal Gambia, da solo. Mia mamma, mia sorella e mio fratello sono rimasti lì. Sono partito e sono stato otto mesi a cercare di raggiungere una barca che mi portasse di là del Mediterraneo. Non avevo niente, solo la speranza di riuscire ad andare avanti, di arrivare di là. Capisci ora perché non guardo indietro? Quando attraversi il deserto, se guardi indietro è finita. Devi andare avanti. Anche se non riesci sempre a mangiare o bere, anche se ti senti stanco morto e le gambe ti dicono di tornare indietro. Devi andare avanti, oltre il Sahara, cinque giorni dietro in un pick-up nero. Finalmente arrivo a Tripoli, in Libia. Una metropoli di un milione di abitanti, a diciassette anni che nel frattempo avevo compiuto. Giro giorni e giorni a piedi con la speranza di trovare un lavoro che mi permettesse di potermi comprare da mangiare. Faccio per cinque mesi l’imbianchino, poi finalmente arriva il mio turno…”.
Luglio 2015, una torrida giornata estiva. Il sorriso sul volto di Sibi lascia il posto ad un’espressione davvero triste, provata. Come se quel giorno lo stesse rivivendo nell’istante in cui lo racconta. Le sue parole così cariche di emozione mi mettono i brividi, mi proiettano lì in quel momento esatto… “In cui salgo sulla barca che mi avrebbe portato in Italia. Avevo una paura che non riesco a raccontare. Avevo paura: pregavo. Pregavo di riuscire ad arrivare in Italia e che tutti i miei compagni di barca ce l’avrebbero fatta. Dopo undici ore, una barca di salvataggio ci prende. Grazie a Dio ce la facciamo tutti. Grazie Dio per avermi fatto arrivare qui…”. Quest’ultima frase è un inno alla vita. Autentico, puro, incontaminato. E’ un inno alla vita contro ogni populismo, contro il lamentarsi continuo e costante cui troppo spesso siamo avvezzi. E’ un inno alla vita da ascoltare, un po’ alla volta, tutti i giorni. Ascoltare, già. Ascoltare non è bello, fa male. Perché ti ispeziona, ti scava dentro, ti mette a nudo. La prima cosa che suscitano in me le parole di Sibi è la seguente, ‘povero scemo, quante volte ti sei lamentato senza senso…’.
Poi c’è un altro messaggio, altrettanto bello. Quello della Virtus Vecomp Verona, che non è una semplice società di calcio. E non soltanto perché Gigi Fresco oltre ad essere il presidente ne è anche l’allenatore. La Virtus Vecomp Verona, infatti, società giustappunto veronese precisamente di Borgo Venezia, gestisce anche una Onlus con la quale ospita ed inserisce nel sociale i migranti. “Gigi Fresco lo vedo come un padre, gli devo tutto”, sottolinea con voce affettuosa Sibi.
Da Lampedusa a Verona. Da Verona a Borgo Venezia. Lì, dove la Virtus lo nota e gli concede la chance della vita. Nel senso più pieno che a questa locuzione si può attribuire, “perché il calcio è tutta la mia vita, non ho nient’altro”. Ma abbiamo saputo che sei anche un ottimo pittore! Sibi ha dipinto, nel tempo libero, tutte le ringhiere dello stadio… “Me la cavo bene dai, è il mio hobby”. La butto sullo scherzo, ci lasciamo andare a due sacrosante risate…allora Buffon o Van Gogh? “Beh, il mio sogno, un giorno spero, è quello di arrivare nei massimi campionati professionistici europei quindi Buffon, che per me è un modello”. Continua il serrato botta e risposta, ma quindi tornerai a vivere in Gambia un giorno? “Un giorno, magari, tornerò dalla mia famiglia. Io penso una cosa: questo mondo è bello e libero e le due cose sono strettamente collegate perché ognuno deve avere la possibilità di poterlo esplorare tutto in piena libertà per coglierne tutta la bellezza…”.
Sibi ormai è l’idolo della tifoseria. C’è un rapporto speciale perché in molti, lì a Borgo Venezia, hanno la sua stessa storia. Perché il destino è strano. Ognuno se lo immagina a modo suo, a me – però – piace pensarlo come una mano invisibile, che ogni tanto, si diverte ad intrecciare con il passato i fili della nostra vita. Non è un’allusione casuale, “alla prima partita di campionato Fermana-Virtus Verona, nel dopo-partita ho ritrovato un vecchio amico che pensate era un mio compagno di squadra in Gambia e che era sulla barca con me. Quando l’ho visto mi si sono illuminati gli occhi, non ci credevo. Non sapevo se scoppiare a ridere o a piangere…”.
Io, invece, non so se scorderò mai quel sorriso. Perché il sorriso di ognuno di noi è l’istantanea della nostra vita, l’hashtag (per usare termini moderni) di chi siamo. E’ il bello di ascoltare. Ma non le parole, bensì il nostro cuore…