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“Recoba? Uno svogliato unico!”. Adiós Chino, favola incompiuta

‘Sicuro? Vuoi tirare da 30 metri?’. ‘Claro que si!’. E palla nell’angolino. Moriero, entusiasta, gli lustra gli scarpini: ‘Ma come diavolo ha fatto?’. Pensa, stupefatto. Recoba parla un italiano stentato ma sorride. E’ incredulo, forse piange. In fondo ha oscurato Ronaldo il giorno dell’esordio a San Siro. “Io c’ero alla partita col Brescia!” l’orgoglio dei tifosi dell’Inter in qualche chiacchiera qui a là. Oggi, come allora, per ricordare quella pennellata che “riecheggia nell’eternità”. Álvaro Alexander Recoba Rivero. Un po’ come Massimo Decimo Meridio. Golazos. Con l’Empoli? Dalla bandierina, roba da golf. I metri son 50. Con la Samp? Da far venire giù San Siro. Perle, su ombre. E lampi, tra pause.

Tratti orientaleggianti, un sinistro fuori dall’ordinario: 40 anni per Recoba, 8 trascorsi all’Inter, croce e delizia del suo talento sacrificato sull’altare della discontinuità. 72 reti e 6 trofei per lui, pupillo di Moratti: “Il Chino è stato il calcio”.  Oggi l’addio al futbol in una parata di stelle, la nostalgia è già canaglia. Arrivato in Italia nel ’97 con l’etichetta del predestinato, Recoba se n’è andato praticamente allo stesso modo, tra il fardello di chi aveva tutto per sfondare e il rimpianto di aver sprecato caterve di occasioni. Decisiva, al tempo, fu una videocassetta mostrata al patron. “Prendiamolo subito”. Detto, fatto. Tante incognite però. Colpi che piovevano come poesie, arte in movimento. Poco movimento anche, e colpi a vuoto. Ultima tappa italiana? Il Torino, proprio quando l’Inter si apprestava a vincere tutto. Ma la sorte non è mai stata la sua migliore amica.

Recoba è stato un talento incompreso, un campione a metà perseguito dai demoni della sorte avversa. Troppo gracile per fare la prima punta, troppo “lento” per occupare la trequarti. Magie e infortuni, alti e bassi. “Se a Parque Central c’è una statua di Carlos Gardel non vedo perché non ne dovremmo fare una al Chino” disse il presidente del Nacional dopo il titolo del 2012. Recoba era anche questo. Un’icona. Chiedete a Gaston Pereiro, suo ex compagno, capace di tatuarsi il suo faccione sorridente sopra il braccio. Merito dell’ennesima magia che batte il Penarol. Ah, il Chino.

Un enigma. Capace, però, di incantare ed emozionare. In Italia come in Uruguay, dove ha chiuso la carriera col Nacional. In Nazionale, anche qui a tratti. A Milano come a Venezia, in Laguna e tra la nebbia, diradata con gli 11 gol del ’99. Allenamenti? Zero voglia: “Il mercoledì c’era la doppia seduta, il mattino era sempre parte atletica. Lui arrivava alle 10 meno due minuti. Faceva morire dal ridere, di uno svogliato unico”, racconta Pippo Maniero. La nebbia poi, altri aneddoti. Si racconta che ad Appiano El Chino non avesse mai voglia di allenarsi (sai che novita!). Piazzava un tavolino vicino al campo, poi si sedeva e…giri di corsa saltati.  Altre volte spariva per delle ore, mica lo vedi più. Andava  a pesca, sua grande passione insieme al tennis. Roba da Recoba, garantisce Veron: Non è stato il miglior giocatore al mondo solo perché non lo ha voluto”.

Un’iperbole chiamata Chino. Julio Cifuentes, nel suo ultimo libro, lo ha definito el último genio. Un elogio alla semplicità di un (quasi) campione. Con una definizione, genio, che non poteva essere più appropriata. Perché le più grandi menti non saranno mai così normali. Ombre, lampi, magie. Fantasia. Sempre stralunato, con la testa chissà dove. Perso. Poche voltre (ri)trovato. Beato chi ci riuscì, tipo Novellino, che al Venezia diceva: “Il Chino gioca dove ca… gli pare”. Aneddoti, storia. Ma il nome di Recoba riecheggerà nell’eternità. Seppur a modo suo. Tra un’eco lontano, un sorriso nostalgico e tanti rimpianti.