L’esilio di Gavillucci: “Mi hanno tolto la tessera, non la passione”
L’arbitro 41enne, dismesso dall’Aia con un sms nell’estate del 2018, è stato il primo in Serie A a fermare una partita per discriminazione territoriale. Oggi, dall’Inghilterra dove ha ripreso a fischiare, ci racconta le ombre del sistema arbitrale, le battaglie vinte e quelle ancora da affrontare: “Parigi l’inizio di una nuova era, come quel Sampdoria-Napoli”.
“Serve un cambio culturale, nel 2020 non si può derubricare come normale identificare un giocatore per il colore del pelle". Da martedì sera una partita di Champions League è finita sulle prime pagine di tutti i quotidiani, fino a diventare un caso istituzionale.
I risultati sportivi non c’entrano: Paris Saint-Germain e Istanbul Basaksehir è stata interrotta al tredicesimo minuto del primo tempo dopo che il quarto uomo romeno Sebastian Coltescu è stato accusato di essersi riferito in modo discriminatorio a Pierre Webo, assistente tecnico della squadra turca (LA RICOSTRUZIONE).
Ma si può essere allontanati anche per aver fischiato contro il razzismo? La risposta sembrerebbe di sì se si guarda alla storia di Claudio Gavillucci, l’arbitro dismesso dalla Serie A nell’estate del 2018 e finito ad arbitrare prima i ragazzi nei campetti di provincia del Lazio poi in Inghilterra tra i dilettanti.
La testimonianza
Gavillucci ha diretto 600 partite, 50 in Serie A dove è rimasto per cinque anni, fino a quel 13 maggio 2018. Fu lui a interrompere per la prima volta una partita di Serie A, Sampdoria-Napoli della penultima di campionato, a causa degli insulti razzisti e di discriminazione territoriale provenienti dagli spalti contro i giocatori in maglia azzurra e in particolare contro il difensore Kalidou Koulibaly.
“Quello di Parigi è stato un episodio mai visto, purtroppo e per fortuna", le sue parole in una lunga confessione a gianlucadimarzio.com. "Purtroppo perché speravo non potesse mai accadere, per fortuna perché attraverso la reazione dei giocatori è stato dato un segnale forte. La Uefa combatte duramente il razzismo e ha aperto un’indagine sull’accaduto. Non posso esprimere giudizi su quanto detto dal quarto uomo, ma se emergessero responsabilità verranno presi provvedimenti esemplari”.
La testa è tornata al maggio di due anni e mezzo fa: “Condivido la reazione dei giocatori, i loro motivi sono perfettamente chiari. A Genova ho provato lo stesso, quei cori mi hanno suscitato un fastidio interiore difficile da spiegare con le parole. La cosa più grave sono i commenti di chi rende l’accaduto quasi normale. Ci sono mille modi per identificare un tesserato: il numero, la posizione in panchina, il giubbotto indossato… Il problema è culturale e lo dimostrano le parole di Demba Ba che non si è soffermato sull’etimologia del termine, ma sul fatto che si potesse identificare una persona per il colore della sua pelle. Oggi vivo in Inghilterra e nessuno qui, al contrario di Italia e Romania, si immaginerebbe mai di identificare qualcuno come ‘black guy’. Non mi stupisce che a reagire subito siano stati Mbappé e Demba Ba che vengono dal calcio inglese e francese. Non voglio colpevolizzare nessuno, conosco i sacrifici che fa un arbitro per arrivare a quei livelli e non credo ci fosse volontarietà, ma questi episodi vanno stigmatizzati con immagini forti come è stata quella di martedì sera”.
Una carriera, quella di Sebastian Coltescu, che appare segnata: “Mi metto nei suoi panni, può vedersi distrutta una carriera per un errore non intenzionale. Eppure siamo a livelli altissimi di professionalità, nell’apice dell’espressione del calcio mondiale e c’è un compito morale: sono personaggi che vengono emulati e che veicolano dei messaggi. Per questo, se saranno accertate le sue colpe, dovrà assumersi le sue responsabilità e non penso ci siano altri scenari possibili. Mi dispiace profondamente perché è una vittima di questo sistema, ma capisco anche cosa possano aver provato i diretti interessati, proveniendo da una cultura dove mai nessuno li aveva appellati così. Nella buonafede non si comprende che anche la parola ‘nero’ può essere utilizzata per discriminare. La partita di Parigi segnerà il passo, sarà il giorno uno di una nuova era come lo è stato in Italia quel Sampdoria-Napoli".
Sampdoria-Napoli
Eppure in Italia due anni e mezzo fa, da più parti, la condanna dell’episodio, non era stata così ferma come in queste ore. Con delle eccezioni: “Tra i primi ricordo il presidente della Sampdoria (Massimo Ferrero, ndr). Scese subito in campo, prendendosi gli sputi dei tifosi, e poi venne nello spogliatoio per ringraziarmi e scusarsi. Non mi è piaciuta invece la mancata pubblicità da parte delle istituzioni, in primis dell’Aia. Come in occasione di Inter-Napoli di qualche mese più tardi: Mazzoleni può non aver sentito i cori razzisti, ma Marcello Nicchi non doveva giustificare così la mancata sospensione. I buu razzisti non sono sfottò da stadio, i colpevoli vanno identificati e non devono passarla liscia”.
Per Gavillucci nessun premio e riconoscimento, solo qualche attestato di stima in privato. Tre minuti di sospensione che potevano diventare uno spot si trasformeranno in stop, cambiando la sua storia personale. Al termine della stagione arriva infatti la bocciatura dalla Commissione arbitrale di serie A che lo declassa all’ultimo posto della graduatoria ‘per motivate ragioni tecniche’: “Non ho le prove per affermare che sia stato quello il motivo reale. Di certo il mio gesto è andato oltre l’ambito sportivo e meritava una pubblicità diversa. Restano le situazioni nebulose di alcune valutazioni: da arbitro tra i più utilizzati, compresa l’ultima giornata in cui in palio c’era la retrocessione, sono stato dichiarato il più scarso del campionato”.
Dai campi polverosi di periferia alle luci di San Siro, prima di vedere il suo sogno spezzato da un sms: “Ero in viaggio di nozze negli Stati Uniti, è stata una doccia fredda. La caduta è stata fragorosa perché ho speso la mia vita per arrivare dov’ero, ma con difficoltà mi sono rialzato”. L’Inghilterra la sua nuova vita da 'exulus immeritus', qui il 41enne si trasferisce per motivi lavorativi e riscopre l’amore per il calcio: “Ero un po’ disgustato, ma le passioni non conoscono confini e tribunali. Ho ricominciato dalle categorie inferiori in Inghilterra dove gli stadi non hanno barriere, in campo ci sono giocatori di tutte le etnie e nessuno individua le persone per il colore della pelle. A mia figlia, quando mi ha chiesto perché non arbitrassi più, ho spiegato che è affinché, grazie al nostro sforzo, in futuro non ci fossero più episodi di razzismo nel calcio”.
Lotta al sistema
A maggio la sua vicenda è diventata anche un libro-dossier («L’uomo nero. Le verità di un arbitro scomodo», Chiarelettere, scritto con Manuela D'Alessandro e Antonietta Ferrante) in cui, attraverso dei documenti inediti, il direttore di gara classe 1979 ha messo in discussione un intero sistema rivelandone ombre, condizionamenti e opacità. E ottenendo risultati concreti: “È nato un programma politico per interrompere l’egemonia decennale dell’attuale presidente Nicchi e gli arbitri hanno preso coscienza di lottare per diritti che gli altri protagonisti di questo show hanno acquisito già da tempo. Nel rettangolo di gioco girano milioni di euro e, fino a poco tempo fa, il responsabile era un lavoratore precario che non poteva conoscere il valore delle sue prestazioni e scopriva il suo licenziamento a un giorno dal rinnovo di contratto: il 30 giugno era un arbitro di Serie A, il 1 luglio non più. Ora, con la riforma dello sport, gli arbitri potranno avere un contratto degno di nota e visionare i referti delle votazioni ricevute, oltre alla loro posizione in graduatoria”.
È cambiato anche il modo di rapportarsi con il Var: “Nel mio libro ho dimostrato tramite i referti ufficiali come i voti più brutti della stagione li abbia presi in quelle partite in cui ho cambiato le decisioni del campo attraverso la tecnologia. Oggi anche questa valutazione è diversa e arriva solo al termine del processo decisionale. Il Var è uno strumento a disposizione dell’arbitro come il fischietto e la bandierina, chi decide senza questo ausilio non è più bravo. Ogni arbitro fa del suo meglio per non sbagliare e non possono esserci retropensieri a sconsigliare l’utilizzo di uno strumento tecnologico così formidabile. L’arbitro del futuro sarà chi saprà utilizzarlo al meglio e non di meno”.
Un modello arbitrale un po’ più vicino a quello inglese dove “il confronto è il primo metodo di crescita” e “le società danno un voto ufficiale all’arbitro con la possibilità di richiedere spiegazioni sia al direttore di gara mezz’ora dopo la partita che successivamente in un complaint ufficiale da recapitare alla federazione”. Metodo win-win: “Le polemiche restano così all’interno del sistema calcio senza inondare le televisioni di critiche che danneggiano in primis l’arbitro e poi tutto l’organismo. Sono contento che anche l’Aia, grazie a un professionista come Gianluca Rocchi, si sia aperta al dialogo con i club”.
L’ultima battaglia
In una realtà che fa dell’assoluta riservatezza la sua bandiera, la strenua lotta di Gavillucci ha portato a una maggiore trasparenza, svelando anche i grandi miti del mondo arbitrale: “Come la fantasia che un dirigente possa incontrarsi con un arbitro o si possa svolgere un secondo lavoro. Affideresti mai una causa a un avvocato che sta 250 giorni fuori casa e la domenica vedi in televisione arbitrare? Se una squadra ha un’eco mediatica maggiore è normale che l’effetto dell’errore sia più grande. Tuttavia non si può aver paura di sbagliare e perdere tre giornate di campionato perché con il meccanismo di remunerazione a gettone si perde fino al 20% dello stipendio. Non si può fermare chi sbaglia, succede in tutti i lavori e da affrontare ci sono le spese quotidiane. Lo stop può essere tecnico, ma lo stipendio va preso comunque”.
La sua ultima battaglia è invece personale e si gioca nelle aule di tribunale, da quando l’uomo nero degli arbitri italiani ha impugnato la decisione di dismissione dell’associazione degli arbitri. È iniziata così una via crucis sfociata in un ricorso alla giustizia sportiva e in una causa al Tar tuttora pendente: “A dicembre, davanti al Collegio di Garanzia del Coni, dovrò difendermi dall’Aia che ha chiesto il ritiro a vita della mia tessera perché con il mio comportamento mi sarei distaccato dai valori dallo sport. Un paradosso: io che li ho difesi a spada tratta e che ho rimesso tempo e denaro per questa battaglia. Mi sarebbe piaciuto un domani tornare in Italia per combattere ogni discriminazione e aiutare gli arbitri più giovani a crescere con un ruolo tecnico, invece con questo provvedimento ‘ad personam’ non sarà possibile”.
Ma una tesserà non varrà mai più di un sorriso: “Ai giovani dico: ‘Quando andate ad arbitrare vi divertite? E allora basta’. Ho fatto Serie A, amichevoli internazionali e il quarto uomo in Champions League, ma pur di arbitrare sono tornato nelle periferie di Liverpool e non vedo l’ora di arbitrare la partita successiva. La gioia di mettersi gli scarpini, prendere la borsa e andare in campo non me la possono togliere”.