“Primo ingaggio? Un panino e una bibita al bar”. Dario Hubner, Il “bisonte di Muggia” si racconta
Il tempo manifesta qualche segno, pizzetto e ricciolini ora sono bianchi, ma la risata del “Bisonte di Muggia” è sempre la stessa. Sigaretta immancabile per Dario Hubner, come sempre, come la simpatia e la disponibilità a raccontarsi ai microfoni di GianlucaDiMarzio.com.
“Vuoi che ti parli della mia carriera? Dobbiamo sbrigarci allora, tra un paio di ore ho l’allenamento! E dammi del tu!” Attacca subito Hubner con un sorriso. Ok Dario, allora iniziamo subito… dalla fine. Da un paio di anni hai cambiato mestiere, come ti trovi dall’altra parte della barricata? “Bene. E’ come diventare papà di 22-23 ragazzi. Ultimamente sto facendo il master a Coverciano per fare l’allenatore di prima categoria. Smettere di giocare non è stato facile. Da una parte mi è costato perché il calcio non era solo il mio mestiere ma una grandissima passione. Però dall’altra il fisico, andando avanti con l’età, non era più quello di un tempo. Poi nel mondo dilettantistico ho incontrato alcune persone che non avevano ancora iniziato a giocare a calcio e pensavano di sapere già tutto e questo mi ha fatto passare un po’ la voglia. Fino a quando trovavi dei compagni ai quali potevi anche insegnare qualcosa mi divertivo. Ma non è andata sempre così: ho perso gli stimoli”.
Il cognome non è proprio italianissimo: perché? “Lunga storia… Mio nonno era tedesco e si era trasferito qui per lavoro, anche se non ho mai avuto la curiosità di chiedere a mio padre come mai decise di venire proprio in Italia”. Poi il primo amore… “Sì, era bella tonda, però a me piaceva lo stesso (ride). Iniziai a giocare a calcio come tutti i bambini, nel piazzale di casa, all’oratorio e per strada. All’epoca uno dei pochi divertimenti era il pallone. A 14 anni decisi di andare a lavorare. Ognuno a un certo punto deve essere in grado di capire quali sono le sue attitudini e le sue qualità. Non andavo male a scuola, ma all’epoca trovare un impiego non era difficile come adesso e così cominciai una volta presa la licenza media: alle sette del mattino del giorno dopo ero già in fabbrica. Giocavo nel settore giovanile di una squadra di prima categoria per cui gli allenamenti mi consentivano di lavorare senza problemi. Mi allenavo due volte a settimana. Era un divertimento, la mia più grande passione: non mi pesava. Ingaggio? Dopo la partita andavamo al bar e ci offrivano un panino e una bibita, non esistevano ingaggi”.
Inizia la famosa “gavetta”, tappa fondamentale? “Cesena. Dopo la prima categoria feci un anno di Interregionale, l’attuale Serie D, e poi andai a Crema in C2, e Fano, prima C2 poi C1. A Cesena cominciai a capire cosa significava veramente il professionismo. Società organizzata, ambiente fantastico, impianti di ottimo livello. Diciamo che conobbi il primo anno di calcio vero e la differenza si fece subito sentire. Proprio al Manuzzi, per il mio modo di correre, nacque il mio soprannome. Avendo un po’ di cifosi mi buttavo avanti con la schiena per cui quando partivo sembravo un bisonte che corre nelle praterie. Tecnicamente non ero bravissimo, ma forza e furore agonistico non mi mancavano per cui il paragone era azzeccato”. Poi la serie A. Tutti ad aspettare Ronaldo, ma all’esordio segna Hubner: era il 31 agosto del 1997.
“Una favola” – riprendere Dario dopo un sospiro – “Io ero abituato a giocare davanti a 15-20 mila persone. Trovarsi in uno stadio fantastico come San Siro davanti a 84 mila persone, tutto esaurito, già di per sé era una grandissima soddisfazione. Se poi aggiungi che segnai all’esordio in serie A puoi capire perché lo considero uno dei momenti più belli della mia vita: non lo scorderò mai”. E nella stagione 2000-2001 a Brescia arrivò anche Baggio. Il più forte compagno con cui hai giocato? “Sì e no, nel senso che lui era uno dei più forti del mondo quando giocava nella Fiorentina e nella Juventus. Quando ci giocai io Roby era già un po’ avanti con l’età e soffriva di acciacchi fisici. Pur facendo la differenza, non era certo il campione che ricordavo, quel 10 che quando partiva era imprendibile. Entrambi avevamo 33-34 anni e Baggio aveva problemi al ginocchio. Il piede, per fortuna, era rimasto sempre lo stesso e quando pennellava certi palloni era la fortuna di ogni compagno. Chi invece mi impressionò veramente fu Pirlo. Era giovanissimo, ma Andrea era già un fenomeno. Quando mi chiedono chi è il più forte con il quale ho giocato non ho mai dubbi, dico Pirlo”.
Hubner vinse la classifica dei cannonieri in serie C, serie B e serie A, unico ad aver raggiunto questo traguardo insieme a Igor Protti. Dario, che ricordi hai della stagione 2001-2002? “Un anno stupendo. Grazie a Novellino e ai miei compagni avevo una squadra disegnata su misura. Sfruttavamo al cento per cento il contropiede e avevo tanti palloni da buttare dentro. Poi io, come sempre, ho provato a fare il mio, cercando di sbagliare il meno possibile e sono riuscito a fare la stagione perfetta. Però senza Poggi, Di Francesco, Gautieri, Volpi e gli altri compagni, non sarei riuscito a vincere la classifica dei cannonieri”. Modelli? Da “tedesco” non potevano che essere tutti del nord: “Rummenigge, uno in cui in parte mi rispecchiavo anche perché avevamo alcune caratteristiche fisiche in comune. Rummenigge tecnicamente non era eccelso, ma lo era come calciatore perché parliamo di un campione straordinario. Poi mi piaceva molto anche Walter Schachner, ex di Cesena, Torino e Avellino, e Preben Elkjaer, centravanti del Verona dello Scudetto. Attaccanti potenti, forti fisicamente e bravi sotto porta, ma che in campo mettevano anche il cuore”.
Prima di chiudere ci racconti l’aneddoto delle sigarette? “Sì, era una specie di sfogo contro il nervosismo e mi caricava. A fine primo tempo ascoltavo quello che aveva da dirci l’allenatore e poi andavo in bagno e fumavo. C’era chi si beveva un thè, chi i sali minerali e io invece mi ricaricavo così. Facevo 3 o 4 tirate e poi la buttavo via”. Ma dopo buttava dentro la palla, a volte anche 3 o 4 gol a partita, uno per “tirata”…