Fra campi in terra e forni a legna: in Spagna un “panificio” sfida i giganti
Mercoledì, in Copa del Rey, la Real Sociedad si troverà di fronte la squadra fondata dal panificio di un paesino canario di 7.000 abitanti. Il presidente e il suo storico capitano ci hanno raccontato l’emozione di un appuntamento con la storia
Nel 1923, da un piccolo forno a legna nel paesino canario di Vega di San Mateo nasceva la Panadería Pulido, il panificio che i signori Panchito e Lolita avevano messo in piedi per sfamare una comunità che oggi alberga solo 7.000 abitanti. 98 anni dopo, il panificio è cresciuto, tanto che conta la bellezza di sette sedi… e una squadra di calcio. Si chiama CF Panadería Pulido e, ai suoi 28 anni di vita, mercoledì affronterà la partita più grande della sua storia, quella di Copa del Rey contro la Real Sociedad, terza in classifica in Liga.
Sul logo del club ci sono due “P”, una spiga di grano e l’anno di nascita, il 1993. Proprio come il panificio, la squadra di calcio è nata come un servizio alla comunità. “Paco Pulido, il proprietario, voleva dare ai ragazzi uno sfogo, un modo per allontanarsi dalla strada. In quel momento, nessuno poteva immaginarsi che un paesino così piccolo, in cui lo sport più popolare era la lotta canaria, potesse arrivare così lontano”, ci racconta Armando Santana, che del Panadería è presidente da 10 anni, anche se prima ne è stato anche l’allenatore.
La squadra è stata promossa l’anno scorso alla Segunda RFEF, l’equivalente della Serie D in Spagna. Lasciando stare la prossima partita con la Real, questo rappresentava già da solo un traguardo storico per un club che, fra le altre cose, ha il budget più basso di tutta la categoria – 450.000€. Basti pensare che solo 10 anni fa il Panadería giocava nella Segunda Regional, il livello più basso a cui una società possa appartenere in Spagna. “Dicevano che fosse il massimo a cui un posto così potesse ambire, ma dopo quattro promozioni io limiti non me ne pongo più”, dice Santana, fiero.
Il club è così umile che alcuni giocatori hanno dovuto abbandonarlo dopo la storica promozione della scorsa stagione, perché lavorando di sabato non potevano più partecipare alle partite. Fra quelli rimasti, “alcuni fanno i commessi, altri lavorano nei ristoranti o nell’agricoltura, altri ancora sono muratori”. In molti hanno prestato servizio al panificio in passato, ma ora, con il salto di categoria, gli orari di quel lavoro non sono più compatibili con la carriera sportiva.
Uno stadio senza porte e senza luci
Il capitano – ingegnere di mattina, difensore di sera – si chiama Rubén Silva e non ha vissuto da protagonista solo la grande evoluzione dell’ultima decade, ma, letteralmente, tutta la vita del Panadería, dove ha giocato per gli ultimi 25 anni. “Sai cosa mi dicono qui? Che ho più vita delle porte dello stadio, perché quando sono arrivato neanche c’erano”, ci dice orgoglioso.
Effettivamente, quando aveva 6 anni e inaugurava la prima squadra giovanile di San Mateo, il club disponeva soltanto di un campo in terra, senza luci. I giocatori dovevano parcheggiare le macchine lungo la linea laterale e con i fari accesi per fare in modo che il pallone si vedesse anche dopo il tramonto. Il comune di San Mateo addirittura descrive quelle condizioni come “deprimenti” nel sito web in cui ripassa la storia del club.
“Fino ai miei 13 anni, abbiamo giocato sempre su quel campo lì. Non avevamo nulla, né tribune, né tantomeno strutture di alcun tipo. Da lì in poi si iniziò a mettere l’erba sintetica e, a poco a poco, le gradinate, gli spogliatoi… E mentre io crescevo, la società creava nuove categorie perché quelli della mia età potessero continuare a giocare. Possiamo dire che io e il club siamo cresciuti insieme”, spiega Silva.
Negli ultimi otto anni, il capitano si è occupato anche di allenare le squadre dei bambini perché “mi rivedo nei loro occhi, e loro nella mia storia. Se ce l’ho fatta io, pensano, anche loro potranno arrivare in prima squadra”. Pensa di continuare a farlo anche quando smetterà, per accompagnare il Panadería sempre più a lungo. Non a caso, nello spogliatoio lo chiamano già “Presi”.
La lotteria di Natale a San Mateo
La Real Sociedad, però, non visiterà il mitico stadio del Panadería (chiamato semplicemente “Campo di calcio di San Mateo”), ma il Gran Canaria, quello dove abitualmente gioca il Las Palmas. Il motivo è che né l’illuminazione, né la capienza (600 persone), né la quantità di angoli in cui disporre le telecamere (il proprietario dei diritti ne chiede ben otto) soddisfano i requisiti per disputare una partita di questo livello. “Noi veniamo dai campionati regionali e in poco tempo ci siamo trovati in questa categoria, poi ci è addirittura caduta addosso una partita di questa grandezza, immaginati”, sottolinea il presidente.
Visto che tutti erano impegnati con il primo lavoro, la squadra non ha potuto vivere il sorteggio insieme. “Quando ho visto che ci era toccata la Real, io sono saltato di gioia, sono esploso di emozione, di allegria. Immaginati come dovevano stare i bambini”, racconta il presidente riferendosi ai giocatori.“Per noi è un sogno, chi ce lo doveva dire che sarebbe successo!”, dice Silva, che a 32 anni già non sarebbe più bambino da un po’. “Ho visto il sorteggio come se fosse l’estrazione del lotto. Tipo: ‘Vediamo cosa ci capita’. In effetti, poi ci siamo fatti i complimenti come se avessimo vinto la lotteria di Natale! E ne avevamo tutta la ragione. Per tanti ragazzi questa è una cosa di un altro mondo”.
Da quel momento, non c’è stata notte in cui l’ultimo pensiero non fosse la Copa del Rey. “È come se fosse scoppiata una bomba in paese. Anche perché, alla fine, con noi giocano tutti gli abitanti di San Mateo, viviamo in simbiosi. Vai in panificio e la gente ti ferma per strada per chiederti della partita. Tutti i giorni, eh. Di mattina, di pomeriggio, di notte: c’è sempre qualche vicino che ti ferma per parlare della Copa. Poi ti ovviamente ti vai a coricare e non riesci a pensare ad altro! E non si capisce più se sia tensione, felicità…”, racconta il capitano con un tocco di incredulità, come se faticasse a credere che tutto quello che sta vivendo sia davvero reale. “E se vinciamo? Se vinciamo mi raso a zero, minimo. Va bene pure un autogol all’ultimo minuto, sia chiaro”.
“L’allenatore gliel’ha detto di pensare alle altre partite, ma chi glielo deve togliere dalla testa che giocheranno una gara così? – aggiunge Santana – Ogni giorno esci per strada e tutti ti chiedono come va la preparazione, quando si comprano i biglietti, se ci saranno autobus… Sono tutti entusiasmati, anche l’affluenza del pubblico agli allenamenti non è mai stata così massiccia. Tutti ti chiamano, anche dalle altre isole. Abbiamo messo in vendita più maglie e le vendite sono schizzate come non mai. È una follia quello che stiamo vivendo, una cosa storica”. L’entusiasmo, intanto, ha già dato i suoi effetti, con la squadra che ha vinto la sua prima partita stagionale lo scorso fine settimana.
Una riforma per ritrovarsi
Se la squadra di un panificio che rappresenta un paesino di 7.000 persone potrà vivere il sogno di affrontare la terza potenza di Spagna è grazie alla recente riforma della coppa nazionale spagnola. Nel 2019, infatti, la Copa si è aperta a ben 116 squadre, fra cui anche quelle appartenenti alle leghe regionali. Per mettere in contesto, alla Coppa Italia partecipano soltanto le 40 squadre di Serie A e B, più quattro “invitate” dalla Serie C.
In un’epoca in cui si parla di SuperLega, qualcuno non lo troverebbe molto televisivo, o semplicemente al passo coi tempi. Per il presidente Santana, però, il nuovo modello spagnolo trascende i semplici 90’ di gioco: “Includendo i club più umili crei una speranza, una gioia, in tantissimi bambini, genitori, giocatori, club, tante piccole realtà che altrimenti verrebbero dimenticate. Nessuno le nomina, nessuno le conosce, e all’improvviso sono sulla bocca di tutti. Nessuno conosceva nemmeno il nostro paese prima di oggi. Il nuovo formato dà la possibilità a tutti noi di credere che un giorno potremo fare cose grandiose come questa, giocare contro una grande e… perché no, eliminare una grande!”.
Silva gli fa eco: “Tutto il movimento calcistico ha beneficiato del nuovo formato. Ha permesso che anche le piccole realtà si sentissero parte di qualcosa. Non dimentichiamoci che il calcio è di tutti. La radice, l’essenza del calcio sta dove tutto è cominciato, e se non vogliamo perderla è lì che dobbiamo tornare. E il calcio, quello vero, non è iniziato negli stadi, ma negli oratori, nei campetti in terra”. Di certo è lì che è iniziato il Panadería, su un terreno sterrato dove degli amici giocavano illuminati dai fari delle macchine, quando una notte così era troppo grande anche solo per sognarla. Condizioni deprimenti, direbbe qualcuno, “ma era bello così. Alla fine, è su quella terra che si sono forgiati i nostri valori”.