Nel mondo di Lapadula: “A scuola? Malino. Ma tornei fino a mezzanotte e quanti gol! Rendeva tutto una sfida”
“Passo dopo passo”, scriveva su Facebook il 7 luglio. E sembrava quasi una profezia. Gianluca Lapadula aveva appena firmato per il Milan, lui che a 26 anni si affacciava per la prima volta alla Serie A. Il ritiro, i problemi fisici, la panchina. L’esordio, poi il gol finalmente. Tacco al Palermo e prima gioia in Serie A per uno che, tra Teramo e Pescara, aveva abituato tutti troppo bene. Passo dopo passo, un percorso che ha portato fino all’azzurro. La Nazionale quando meno te lo aspetti, la maglia dell’Italia dieci anni dopo quella del Collegno Paradiso. Una favola: “Era un bravo ragazzo, che faceva gruppo nello spogliatoio e scherzava molto”, racconta Stefano Serami che di quel club piemontese era allenatore dei Giovanissimi prima e degli Allievi poi. Sempre con Lapadula là davanti: “Bravo sì, ma con un carattere… Quando mi faceva arrabbiare, girava intorno al campo o rimaneva fuori squadra”. Suggerimenti a Montella, nel caso dovesse punirlo. In fondo però “non se la prendeva mai, tranne quando perdeva, pure in partitella. Cercava di rendere tutto una sfida. Con me scommetteva ad esempio su chi prendeva la traversa in allenamento. Spesso lo battevo”, dice Stefano a gianlucadimarzio.com. E intanto sorride, ripensando a quella coppia Lapadula-Lapadula, perché pure il fratellone Davide col gol ci sa fare. Anzi, “lui è più forte tecnicamente, ogni tanto però staccava la spina…”. L’opposto di Gianluca, uno che invece – passo dopo passo – non mollava mai e “credeva molto nei propri mezzi”. Fiducia e umiltà, parole chiave di una vita intera: “Era l’unico ’90 degli Allievi B, ma rispettava tutti”, racconta Vincenzo Manzo. Stesso nome e stesse iniziali di Montella, in comunque ancora quel cognome filastrocca: Lapadula. Quel gruppo perse la finale del titolo regionale, ma “Lapa’ sapeva già farsi rispettare dai difensori”. E fuori dal campo? “Abitava a Torino in via Nizza, nei giardini vicino i ragazzi disputavano tornei, fino a mezzanotte o all’una. Abituato a farsi male, veniva sgridato e ci implorava di non raccontarlo al padre”, confessa Manzo.
Segnali di un bomber che davvero non smetteva mai di segnare, neppure quando papà Gianfranco lo sgridava per il cattivo rendimento a scuola. Italiano lui, peruviana la madre, Blanca Vargas. Tre figli, una femmina: Anna, la studiosa di casa, poi insegnante di sostegno. I maschietti consegnavano i fiori per il negozio di famiglia. Essenziale aiutarsi, bisognava arrivare alla fine del mese. Passo dopo passo. Niente e nessuno poteva togliere però a Gianluca il pallone dalla testa. Juve compresa, che in precedenza lo aveva lasciato andare. Talento indiscutibile, indispettivano alcuni atteggiamenti. “Nonostante sembrasse esuberante, non fumava né beveva, a differenza di alcuni compagni. Preferiva palleggiare al Lingotto e giocare all’oratorio”, racconta Simone Banchieri, che allora guidava la Beretti del fratello Davide. “Altrimenti andavano a correre, entrambi fanatici del proprio fisico. Impeccabili pure sull’alimentazione, mai con un filo di grasso”. Evidente il dono di madre natura: “Ricordo ancora quando palleggiavano a terra. Mai una volta che lasciavano cadere la palla”. Tra i due una sana rivalità: “Facevano a gara su chi faceva più gol nelle rispettive categorie. Gianluca lo consigliai io al Treviso, conoscendo capitan William Pianu”. Rimase lì solo un anno. In crisi economica, la società non poteva più pagargli vitto e alloggio. “Veniva additato come un ragazzo normale, non come un predestinato”. Ai tempi seconda punta, ora centravanti in Nazionale. Passo dopo passo, nessuno si aspettava un percorso così. O forse solo uno, Gianluca Lapadula.
A cura di Manuel Magarini