“Mi vedevo già nudo a San Siro”. Simone Perilli, quasi eroe del Pordenone, cresciuto tra Lazio e Roma
Gigante, pensaci tu. Lo hanno detto in tanti quella sera a Milano. Sciarpa neroverde al collo e il sogno a undici metri. Era notte fonda. Il piccolo Pordenone ai rigori contro l’Inter. La capolista, in quel momento, della serie A. Tutto nelle mani di un portiere del 1995: Simone Perilli. Aveva già fatto miracoli per due ore e parato due tiri dal dischetto di Skriniar e Gagliardini. Toccava a Icardi. Uno contro l’altro: i quarti di finale a pochi secondi. “Vedevo che si avvicinava e pensavo a come avrei festeggiato”, sogna ancora a occhi aperti al microfono di gianlucadimarzio.com. “Ha tirato sul lato su cui avevo deciso di buttarmi. Non so perché mi sono tuffato dall’altro. Un po’ rosico, ma è stato peggio quello dopo di Vecino. Avevo intuito. Dieci centimetri più giù e avremmo scritto una storia epica”. Poteva essere Achille e ha fatto la fine di Patroclo, ma solo nel risultato. Perché la notte di San Siro resta nella mente e negli occhi di tutti. “Se fossimo passati, avrei perso coscienza. Me sarei tolto tutto, nun me ce fa pensà…”.
Tutta la romanità in una frase. Un ragazzone di 22 anni cresciuto con una passione sconfinata per la Lazio. “Ho iniziato lì, a sei anni, nella mia squadra del cuore. Volfango Patarca, scopritore di Nesta, mi guardò e decise di mettermi in porta. Volevo fare il difensore centrale. Lui che aveva visto crescere Nesta, fu più lungimirante. Capirai, con la voglia che avevo di correre, altro che San Siro. L’avrei visto solo dal divano”.
Simone sarà anche pigro, ma un po’ ci gioca. E per giocare sul serio, a dieci anni ha lasciato la Lazio. “Mi sono trasferito alla Roma. Trigoria è vicina ad Ardea, la mia città. Era comodo, però…”. Però la geografia a volte si scontra col cuore. Quello è sempre rimasto a Formello, dove mamma Anna lavora nell’amministrazione del club. “Sono cresciuto in curva Nord. Tutta la mia famiglia è laziale. Ricordo tutti i derby. Quello del 26 maggio manco te lo dico, ma forse sono ancora più affezionato al 2-1 del 2011: Klose a tempo scaduto. Mi vengono ancora i brividi”.
Una passione trasmessa da suo padre Paolo, autista dei bus cittadini e Cicerone nel mondo biancoceleste. Anche lui avrà avuto un sussulto quando l’ha visto in giallorosso. “Magari quando mi allenava Montella, che fra l’altro mi prendeva in giro spesso. Ho sempre cercato di vederlo come allenatore e non come l’Aeroplanino che ci castigava sempre”. Sfottò e goliardia, mai un passo indietro nei derby giovanili. “Anzi, ero ancora più cattivo. Lo sentivo come un fatto personale. Io contro la Lazio, per 90 minuti, poi tornavo più tifoso di prima”.
A sedici anni, Simone ha salutato Roma. Destinazione Sassuolo: stessi colori del Pordenone, stessi valori. “Una famiglia. Me la sarei potuta giocare meglio. Mi fecero il primo contratto e mi sentivo Buffon. Avevo la parola “professionista” in bocca, ma non la portavo in allenamento. Ogni tanto “scapocciavo”. Per fortuna sono cresciuto”.
Di testa, oltre i suoi 195 centimetri. Nel passaggio alla Reggiana è sbocciato. “Due anni splendidi, una piazza da serie A, campionati di alta classifica, seimila persone allo stadio. Finalmente raccoglievo quello che avevo seminato”.
E così, eccolo a Pordenone. Un matrimonio iniziato sei mesi fa. “Quando mi hanno cercato, ho accettato molto volentieri, anche perché l’allenatore per me era una garanzia assoluta”. Leonardo Colucci, un punto di riferimento per il portiere romano. “Mi aveva già allenato nel secondo anno a Reggio e mi ha rivoluto con sé. Se mi dice di andare in guerra, io parto con lui. A volte fa certi discorsi motivazionali prima delle gare, che me sale un veleno…”.
Un veleno che ogni tanto sale anche al presidente Mauro Lovisa. “Un uomo di cuore. A volte gli prendono i 5 minuti, ma gli passa subito. Vulcanico, passionale, vero”.
Il Pordenone è la sua creatura. Obiettivo promozione, dopo la semifinale col Parma dell’anno scorso. Ora è in piena zona playoff e può sempre contare su uno staff meticoloso, che punta forte sui giovani. Anche quelli ancora nell’ombra. Uno su tutti, Marco Meneghetti, terzo portiere del 2001, già con gli occhi addosso della Juve. “È bravo, ma ne deve mangiare di pagnotte. Si farà, perché ha grandi doti, soprattutto l’incoscienza sulle uscite. Deve lavorare duro e non montarsi la testa. A 16 anni è facile sbagliare, ne so qualcosa”.
In sottofondo, si sente il pianto di una bambina. “Ginevra. Ha 9 mesi. Bellissima. Merito della mamma ovviamente: Elisa, ligure e sampdoriana. Almeno con San Pazzini ha fatto perdere uno scudetto alla Roma”.
Simone torna alle sue passioni. Cucina e divano. La prima è una tradizione di famiglia, l’altra è il manifesto della sua pigrizia. “Aspetta, a me piace anche viaggiare. Londra la amo, i Caraibi mi hanno fatto impazzire. Però anche vederli da qui con un documentario non è male”.
Insuperabile. O quasi. Come quella notte a San Siro.