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Mancini: “Mi piacerebbe allenare l’Italia, il campo mi manca. Aspetto un progetto. L’Inter? Meglio per tutti separarsi”

Un amore lungo una vita, quello tra Roberto Mancini e il calcio. Iniziato quando il Mancio era solo un piccolo sognatore che dopo la scuola si infilava le scarpette e iniziava a tirare calci all’oratorio a due passi da casa: “Allora ero della Juventus e il mio idolo era Bettega – racconta l’ex allenatore dell’Inter in una lunga intervista al Corriere dello Sport – Di calcio in camera mia c’erano un paio di scarpe da calcio e un pallone di cuoio, quei palloni di cuoio che andavano tanti anni fa. Quelli di cuoio con le pezze legate l’una all’altra con i lacci. Poi piano piano sono andati modernizzandosi e ogni Natale io chiedevo a Babbo Natale un paio di scarpe nuove e un pallone da calcio. Quelle erano le cose, le uniche cose, che sinceramente mi interessavano”.

Nell’intervista al quotidiano, Mancini racconta tutto il suo passato. I primi calci in parrocchia, l’infanzia. Poi, il passaggio al Bologna dall’Aurora Jesi: “ Potrei dirle che passai con i rossoblù perché mia mamma un giorno doveva andare a Bologna da un dentista. Mio padre, tramite un amico che abitava a Bologna, si organizzò in modo da andarci quando c’erano i provini. Quindi si organizzò senza dire niente a mia mamma, perché mia mamma non voleva che io mi mettesi grilli calcistici per la testa. Noi lasciammo mia mamma dal dentista e così io, mio papà e il suo amico andammo a Casteldebole, per fare il provino. C’erano tanti ragazzi, fecero le squadre e l’allenatore mi mise in attacco. Però mio padre mi disse, prima di iniziare, “Se vuoi farti vedere, torna indietro e gioca un po’ più a centro campo, così tocchi un po’ più di palloni”. Mai non ascoltare il proprio padre. Feci così. Ma, alla fine del primo tempo, mi tolsero subito dal campo perché avevano paura che ci fosse qualche altro osservatore e quindi potesse acquistarmi lui. Ma io non lo sapevo e mi spaventai, pensavo di non essere andato bene. Invece alla fine della partita ci chiamarono e ci dissero “A noi interessi”. Esordii in A a 16 anni e nove mesi, giocavo ancora negli Allievi. L’allenatore era Burgnich. Arrivare così di colpo a giocare in serie A è stata una delle emozioni più belle che abbia mai vissuto“.

I ricordi di Mancini si sono tinti poi di blucerchiato. La Samp, uno dei capitoli più belli della sua favolosa carriera: “Io, in fondo, non ho conosciuto tanti allenatori, perché ho avuto per molti anni Boskov e Eriksson. Credo che loro due siano stati gli allenatori dai quali ho appreso di più. Boskov era un allenatore più tradizionale e Eriksson era uno degli allenatori del cambiamento, del gioco a zona. Mi ricordo il primo giorno che lui arrivò alla Sampdoria. Boskov era stato allenatore del Real Madrid, mica poco. Il primo giorno in ritiro disse: “Allora noi rappresentiamo Sampdoria. Il Sampdoria è una grande squadra e noi da domani tutti i giorni con la barba fatta, la cravatta e senza occhiali”. Noi, che eravamo giovani, ci guardammo allibiti temendo un sergente di ferro. Invece durò due giorni. Scoprimmo subito che era una persona perbene, un grandissimo allenatore che poi ci fece vincere il campionato. La sconfitta della Sampdoria nella finale di Coppa dei Campioni con il Barcellona è stata devastante. Io non ho mai più rivisto la partita perché fu una delusione troppo cocente. Io e Vialli? La nostra gioventù l’abbiamo passata insieme. Io e Luca eravamo i due giocatori simbolo per la gente, perché eravamo gli attaccanti. Eravamo di carattere opposto, perciò andavamo d’accordo. In quel tempo tutto era bello, anche i ritiri. Mantovani? Un uomo di un altro mondo. Era un genio. Era una persona perbene, era uno che capiva le cose dieci anni prima degli altri. Un presidente perfetto. Non ha mai fatto una polemica, non ha mai fatto un’intervista sbagliata contro un allenatore o contro un giocatore. Un uomo di altri tempi. Mai avuto presidenti come lui”.

Dopo la Samp, la Lazio: “Mantovani purtroppo morì nel ’93 e iniziò ad esserci qualche problema con suo figlio, non andavamo più d’accordo e quindi andai via con grande dispiacere. Non sarei mai andato via dalla Samp. Per me sono stati, in assoluto, i più belli della mia vita. Nella Lazio trovai però un club che stava costruendo una grande squadra e quindi andò benissimo. Il Leicester? Io ero nella scuderia di Eriksson. In quel momento avevo smesso da poco di giocare. Eriksson era passato alla nazionale inglese e io pensavo che potessero affidarmi la Lazio. Invece, forse giustamente, scelsero Dino Zoff che era più esperto. Eriksson un giorno mi chiamò e mi disse: “Il mio secondo della nazionale inglese è anche l’allenatore del Leicester e mi ha chiesto se vuoi andare a giocare là”. E io andai. Così, senza neanche pensarci. Feci un po’ di fatica all’inizio e poi, quando stavo entrando in forma, arrivò l’offerta del presidente Cecchi Gori per andare ad allenare la Fiorentina. Con Ranieri penso abbiano sbagliato. Perché Ranieri ha fatto una cosa che non avverrà più nei prossimi mille anni. E ra più giusto retrocedere con Ranieri per poi tornare di nuovo in Premier League. Avevano il dovere di trattarlo in un altro modo“.

Quando si parla di Mancini non si parla di classe, di poesia applicata al calcio. E di gol. Due sono quelli che più di altri hanno emozionato il Mancio: “Io sono affezionato a due gol. Quello di tacco a Parma e un gol al volo a Napoli quando con la Samp vincemmo lo scudetto. Vincemmo 4 a 1 contro il Napoli di Maradona. La Nazionale? Io sono andato in Nazionale la prima volta con Bearzot nel 1984, a venti anni. Poi una notte uscii a New York, quando eravamo in tournée, lui si arrabbiò, io non lo chiamai per scusarmi e così persi i mondiali dell’86 in Messico. Poi con Vicini facemmo gli Europei dell’88, i mondiali del ’90, poi potevo fare quelli del ’94 ma cambiarono gli allenatori. Purtroppo in quei tempi eravamo tanti ad essere bravi e quindi l’allenatore qualcuno bravo lo doveva sempre lasciare fuori, purtroppo. Io ero quello che stava fuori“.

Ma Mancini non è stato solo uno splendido giocatore. Perché i trofei e le gioie sono arrivate anche dall’altra parte, in panchina. Vincente, come sempre, in Italia come in Inghilterra. E allora eccoli, i suoi ricordi da allenatore: “La prima cosa che dico a una squadra? Credo che la cosa fondamentale sia quella di pensare sempre positivo, di pensare che la nostra squadra debba essere una squadra che attacca, si diverte. Quella che mi dà più fastidio? A volte quando vedo che si allenano male, perché a volte i giocatori sono giovani e non capiscono quanto sono fortunati. Oggi l’Italia vive un momento difficile. Il calcio va a momenti, questo è uno di quelli in cui effettivamente non ci sono grandissimi giocatori, come c’erano negli anni ’90. L’Italia ha sfornato per decenni giocatori straordinari e tutti insieme. Adesso, quando smetterà Totti, si chiuderà un intero ciclo. Speriamo che esplodano i giovani che stanno emergendo in questo momento. E speriamo che possano essere giocatori tecnici, bravi, che sanno saltare l’uomo“.

Quando deve indicare l’esperienza più bella da allenatore, Mancini ha pochi dubbi: “L’Inghilterra è stata una bellissima esperienza: le partite sono divertenti, le squadre non pensano tanto a difendersi perché tatticamente non sono così evolute, la gente va per divertirsi: i calciatori lì pensano che se perdono pazienza e se vincono è uguale. Balotelli? L’ho fatto debuttare in serie A giovanissimo, nell’Inter. L’ho portato con me al Manchester City. E’ un bravissimo ragazzo, un ragazzo dal cuore d’oro, aveva grandi qualità quando ha debuttato. Anche al City ha fatto bene. Poi non so cosa sia successo, è stato un dispiacere. Rischia di buttare via una carriera che poteva essere formidabile“.

I tempi più recenti del Mancio parlano di un’esperienza (bis) in chiaroscuro all’Inter. Iniziata con grandi aspettative, dopo i successi della prima era, e conclusasi la scorsa estate tra qualche incomprensione: “E’ stata comunque una buona esperienza . Io ho lavorato un anno e mezzo, abbiamo costruito una buona squadra e poi ci siamo lasciati perché secondo me non c’erano più le condizioni giuste per lavorare bene e per lavorare insieme. Poi quando cambia il proprietario del club, arrivano proprietari da un altro continente che non sanno tanto di calcio italiano, diventa un po’ difficile lavorare e far capire che con poco quest’anno l’Inter poteva lottare per il vertice. Dopo un po’abbiamo capito che era meglio separarsi. Forse è stato meglio per tutti. Il campo adesso mi manca molto. Non è facile star fermo, anche se per propria scelta, per uno che lavora tutti i giorni da sempre. I primi mesi sono belli, perché uno si riposa e ritrova il tempo. Dopo chiaramente il lavoro quotidiano manca. Ora aspetto fine campionato. Italia o estero? Vediamo quello che accadrà e cosa potrà arrivare di buono, per continuare a vincere. Romanticamente mi piacerebbe allenare la Nazionale. Per tanti motivi. Se dovessi rivivere un giorno della mia carriera, sceglierei la finale di Coppa dei Campioni con la Sampdoria. Cambiando il risultato, però“.

Una Nazionale che, tra l’altro, visti gli ultimi talenti in vetrina in Serie A, promette molto bene: “Berardi secondo me è molto forte. Bernardeschi, Chiesa, Donnarumma, Locatelli. Tempo un paio d’anni e credo possa venir fuori una buona Nazionale. Gagliardini dell’Inter, mi sembra un bravo giocatore. Il più forte al mondo? Messi. Il mio ricordo più bello? Quando abbiamo vinto la Premier League col Manchester City. Lui alla fine è sceso in campo con me. Aveva in mano la bandiera italiana e mi ha detto: sono orgoglioso di te”.