Da Maradona alla panchina, Garzya: “Ai miei ragazzi racconto di quando Diego…”
“Quando vedo uno dei miei ragazzi lamentarsi per una botta ricevuta o per un fallo non fischiatogli a favore, lo prendo da parte e gli racconto di Maradona: quando lo marcavo, Diego ne ha prese tante di botte, ma senza mai fiatare o simulare. In campo era un grande esempio di onestà e sportività”.
Luigi Garzya oggi è l’allenatore della Berretti del Potenza Calcio e ai microfoni di GianlucaDiMarzio.com confessa che proprio questa per lui è la dimensione ideale. “Ideale, esatto. È stato sempre il mio sogno quello di continuare a lavorare nel mondo del calcio come allenatore del settore giovanile. Era un mio pensiero fisso sin dai tempi in cui ero calciatore. Immaginavo già come avrei potuto sfruttare un giorno tutto il mio bagaglio di esperienze a favore della tutela e della crescita dei ragazzi, perché io, purtroppo, nella mia carriera ho visti diversi, anzi troppi, talenti che si sono persi per strada ”.
Ed è proprio così. Garzya di talenti puri ne ha conosciuti, marcati e affrontati moltissimi nel corso della sua carriera, sfidando “I più forti di sempre”. “Da quando ho esordito in A nel 1985 con il Lecce – riprende Garzya – fino alla mia ultima stagione nel 2003 con il Toro, mi sono trovato a marcare fenomeni del calibro di Van Basten, Baggio, Totti, Del Piero, Henry, Ronaldo e mi fermo qui perché la lista poi rischia d’essere davvero lunghissima”, continua ridendo.
“Oltre a essere fenomenali, tutti questi campioni mi hanno sempre stupito per una qualità prevalente su tutte: l’umiltà. È la prerogativa che più apprezzo e che credo determini maggiormente le fortune di un professionista, nel mondo del calcio come nella vita. Lo dico sempre ai miei ragazzi: umiltà e… pedalare! Ovviamente, io devo e voglio essere il primo a vivere di umiltà e lavoro, perché se non risulti un credibile testimone agli occhi dei ragazzi, rischi di essere un ciarlatano e non un maestro”.
“Chi tra questi fenomeni mi ha tolto il sonno sapendo che lo avrei dovuto marcare? Sarebbe troppo facile e scontato rispondere Maradona, a mio avviso il più forte di sempre. Quando affrontavo questi ‘mostri sacri’, infatti, ero in qualche modo sempre sereno, perché sapevo che se gente come Diego o altri avessero voluto, la palla non te l’avrebbero mai neanche fatta vedere in campo: dipendeva tutto da loro e poco da te. Quindi rispondo con un nome ‘inaspettato’, Totò Schillaci. Per me era realmente un incubo marcarlo: aveva una cattiveria agonistica impressionante che lo faceva battagliare su ogni pallone in maniera unica. Quindi proprio Totò, sì, mi ha tolto spesso il sonno”.
“Se l’Italia è ancora oggi la patria dei grandi difensori? Magari ci fosse stato tutto questo interesse mediatico intorno a noi difensori all’epoca in cui giocavo! Eravamo considerati solo dei taglialegna aggressivi e ‘senza piedi’! Noi, però sapevamo almeno difendere!”, sorride divertito Garzya. Che poi aggiunge: “Io credo che il ‘dramma’ di oggi sia proprio questo: formare dei difensori il cui primo requisito non è più quello di saper difendere, ma quello di saper ‘giocare la palla’. Aspetto importantissimo sì, fondamentale. Credo, tuttavia, che il concentrarsi di più sulla natura estetica del difensore, piuttosto che su quella tecnica abbia prodotto della confusione su un’unica realtà: un difensore deve prima di tutto saper difendere”.
Garzya non nasconde la sua ammirazione per Chiellini, difensore che risponde pienamente al marcatore ‘vecchia maniera’. “È il più forte marcatore non solo d’Italia, ma di tutta Europa: riesce a mantenere standard altissimi, nonostante l’età, grazie proprio a quell’umiltà che non lo fa mai adagiare o sentire ‘arrivato’, ma che anzi lo sprona a individuare e superare i propri limiti”. Dal passato al futuro: “Dove sarò tra 10 anni? Continuerò a lavorare e a vivere con i ragazzi, con i giovani calciatori. Sicuramente. L’empatia che instauri con loro è speciale perché mi emoziona sempre l’idea che un giorno da semplici ragazzi, diventeranno dei veri uomini. E forse, solo un po’, anche grazie a me”.
A cura di Giovanni Caporale