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Lavoro e semplicità, Leonardo Colucci: “Pesaro, scelta di passione…”

“Cari ragazzi, se lo sognate vuol dire – per il solo fatto di averlo pensato – che ci potete arrivare… La teoria del ‘se grandioso’… E’ psicologia, è vita, chiamatela pure come volete…”. E’ in questo splendido messaggio l’incipit della nostra chiacchierata con Leonardo Colucci. Chiacchierata più che intervista. Perché non c’è formalismo nell’aprire a trecentosessanta gradi le porte del proprio cuore e raccontare la propria storia. Io l’ho fatto con lui, lui l’ha fatto con me, alla fine ci siamo fatti una bella risata con la promessa che torneremo presto a parlare (non solo) di calcio.

Perché Leonardo Colucci è una persona vera. Non ha filtri, non ha maschere, non è ancorato alle tanto inutili convenzioni sociali cui ormai ci aggrappiamo disperatamente in qualsiasi retaggio sociale. Perché Leonardo Colucci ha conosciuto un’unica strada nella sua vita: quella della fatica, del sacrificio, del lavoro. E quando arrivi con le tue gambe hai una cultura differente da chi, invece, ha già tutto pronto e preparato. E’ la cultura di apprezzare le cose che hai. Quella che oggi tanto ci manca. In un mondo dove tutto è scontato, dove alla prima difficoltà pensiamo già al piano B anziché a metter tutto noi stessi e anche qualcosa in più per superarla. Ma così non cresciamo, come uomini e come persone. Rimaniamo fermi in un limbo nel quale più che a vivere pensiamo a sopravvivere.

Oggi Colucci è, meritatamente, agli onori della cronaca quale sorpresa (soltanto per chi non lo conosce) dell’intera Serie C con la sua Vis Pesaro, neopromossa, che viaggia a ritmi speditissimi nel girone B (sesto posto con diciannove punti in dodici partite). Ma partiamo da lontano, dall’infanzia, dai primi calci al pallone, dai lavoretti estivi per arrotondare. Come se ci conoscessimo da una vita, come se fossimo amici di lunga data. Ed è in questa declinazione incredibile di semplicità la forza dell’uomo Leonardo, splendidamente anacronistica nel mondo del ‘giochi a calcio quindi puoi tirartela perché vieni da un altro Pianeta…’.

“I primi calci al pallone li ho dati per le strade della mia città, Cerignola. Uscivo di casa con due maglioni per fare i pali della porta e il mio compagno di squadra era il muro. Un compagno di squadra che manca tantissimo ai giovani di oggi! Se ci sbatti la palla troppo forte o troppo piano, non ti arriva di nuovo perfetta sui piedi. E allora devi calibrare, provare e riprovare, ma alla centesima volta che dovevi andar a prender la palla in fondo a una discesa o dalla vicina di casa che ti sgridava quando arrivava nel suo giardino, riuscivi a trovare il giusto metro. Dico che ci manca tanto il muro perché ti mette davanti un problema e tu, da solo, devi trovare la soluzione. Oggi questo non accade più, i giovanotti alla prima difficoltà vanno a piangere dal mister ed ecco pronta la soluzione, senza il minimo sforzo. Poi ahi voglia a lamentarci che non crescono! Ma comunque è un problema di sistema, dei settori giovanili in generale. A te allenatore fanno firmare un contratto di un anno e a fine stagione devi portare i risultati sennò ti mandano via a calci in culo, altro che crescita dei ragazzi! Certo se io ho alle spalle una certa solidità economica posso permettermi di dare più spazio alla loro crescita, ma stai tranquillo che se devo portare da mangiare a casa perché ho una famiglia da mantenere devo portare i risultati e devo stare pure zitto. E’ inutile prenderci in giro, funziona così…”.

Con tutte le implicazioni del caso: in primis la morte della meritocrazia e una capacità di giudizio tristemente limitata a quattro numeri… “A proposito di numeri, vorrei dire una cosa, che è fondamentale per come vedo il calcio io. Vado più orgoglioso delle 116 presenze nei Dilettanti che delle più di 400 nei Professionisti perché il valore della gavetta e del sacrificio lo trovi lì, nei campi di Provincia dove le docce non vanno, nelle due o tre ‘randellate’ a partita che prendi e porti a casa. Ma lì impari ad apprezzare il valore delle cose. Oggi il giovane – racconta Leonardo Colucci ai microfoni di GianlucaDiMarzio.com – non si conquista niente e quindi non si gusta ciò che conquista. Gioca, anche perché favorito da queste regole sugli under, ma non si mette in discussione. Gioca come se dovesse timbrare il cartellino dell’ufficio. Ma è normale così, non li colpevolizzo più di tanto i ragazzi, è chiaro che se raggiungi qualcosa senza essertela davvero conquistata, non gli dai nemmeno valore”.

Oggi giochi per un regolamento, venti anni fa per riscattare una condizione sociale. Per provare a regalare un futuro migliore a te e alla tua famiglia. Passavi l’infanzia intera, a correr su e giù per le vie della tua città, sognando ad occhi aperti. La partita alla domenica la vedevi se eri fortunato che vivevi in qualche grande Metropoli. Non c’erano gli smartphone a riempier (di effimero valore) le nostre giornate… “Altro che telefono e computer. Io d’estate andavo a lavorare dal giorno in cui si chiudeva la scuola a quello in cui si riapriva e abitavo a quarantacinque chilometri dal Gargano, quindi pensate anche quanto rosicavo! Ma gli anni passavano, vedevo i sacrifici che i miei genitori facevano per portare il pane a casa ed io volevo provarmi a costruire una mia piccola indipendenza economica. Giocavo a calcio sì, ma in Promozione era più un divertimento che altro e poi a 16 anni avevo avuto anche un problema al ginocchio piuttosto serio quindi dovevo pensare anche al domani, a quando avrei finito gli studi. Per un po’ di anni ho fatto il fabbro, poi il muratore e se non fossi arrivato nel mondo del calcio oggi, probabilmente, avrei fatto o l’uno o l’altro. Mi svegliavo alle 6.30 della mattina, zaino in spalla e si andava a lavorare con 40 gradi all’ombra. Io ogni tanto mi impallavo sull’impalcatura, mi auto-sognavo mentre giocavo in Serie A, sul campo di Milano, poi mi davo un pizzicotto e tornavo alla realtà. Lavoravo per 50 euro alla settimana, non erano tanti, però mi permettevano di portare la mia ragazza a mangiare una pizza fuori il sabato sera e mi accontentavo”.

E’ nello spessore umano davvero incredibile di Leonardo una triste verità che affligge la realtà contemporanea: sei figo solo se studi, se fai l’Università, altrimenti ti mettono anche vergogna. E questo è un tabù deprecabile, da sfatare. Perché è quando ti svegli alle 6.30 e lavori dieci ore sotto il sole di piena estate che non sai più dove finiscono le scottature e dove comincia l’abbronzatura che cominci ad assaporare il vero valore delle cose.

Parliamo del passaggio alla Lazio per volere di Zeman, dell’esperienza alla Reggiana con Ancelotti alla prima da allenatore (e la grande stima per Colucci menzionato in tutti e due i suoi libri quale esempio di gregario), ma soprattutto della sua Cerignola. Qui Leonardo si commuove, due o tre lacrime sincere… “Scusate, ma ho un legame troppo forte con la mia città, con la mia gente. Io quando giocavo era come se portassi con me 60.000 persone, il desiderio di fare qualcosa anche per loro, di non deluderli, di portare un messaggio di speranza per tutti, ‘anche se ci sono poche opportunità, qualcuno ce la fa’. Era un dimostrare che anche senza un cognome importante, che anche partendo dal basso, potevi arrivare. Noi al Sud abbiamo un grande attaccamento, abbiamo un grande cuore. Quando vieni da noi piangi tre volte: quando arrivi, quando riparti e quando ci pensi…”.

E’ la mentalità la vera forza di Colucci. La mentalità di chi non ha paura, la mentalità di chi ha mangiato tanta polvere e si gusta ogni movimento di vita sull’amato rettangolo verde, la mentalità di chi fa della semplicità la sua keyword. Oltre ad una conoscenza incredibile della materia. Incredibile, davvero. Schemi, tattiche, giocatori. E’ la fame sì. La fame di conoscere, di andare oltre. La sana ambizione, il non accontentarsi, il guardar il gradino più sopra anziché quello da cui si è appena saliti.

“Io dovunque sono stato, il primo giorno di allenamento, ho detto una cosa ai ragazzi, ‘se volete esser ricordati per il cognome dietro la maglia, dovete prima sudare per lo scudetto che avete davanti. Altrimenti sarete meteore, passerete con il trascorrere del tempo. Perché non sarà un gol o una rovesciata a imprimere il vostro nome negli annali, sarà il sacrificio che farete per onorare ogni giorno la maglia che indossate’…”. Come nello spogliatoio di San Siro, prima di quella notte magica con il suo Pordenone a sfidar l’Inter in Coppa Italia… Il Sabato del Villaggio più bello della mia vita, un’attesa incredibile, sai che è quasi un anno? Ogni tanto ci ripenso, dirò sempre grazie ai ragazzi, alla società, alla città intera”.

Poi ce n’è un’altra di frase tanto cara a Leonardo Colucci, ‘non perdo mai. O vinco, o imparo’. Un aforisma che nasce da lontano… Quando allenavo il settore giovanile… Dopo ogni sconfitta vedevo i miei ragazzi che tornavano nello spogliatoio tutti affranti allora gli dicevo così… quando tornate a casa e vi chiedono cosa avete fatto, voi non dite che avete perso bensì che hanno vinto gli altri. Perché noi se ci siamo impegnati al massimo, se abbiamo dato tutti noi stessi, noi non abbiamo perso ma hanno semplicemente vinto gli altri, che è un concetto differente. E’ finito il tempo, non la partita…”.

Veniamo al presente, a questa estate. Colucci lo cerca mezza Italia, anche la Primavera dell’Inter, ma alla fine sceglie la Vis Pesaro… “Faccio una premessa, la passione è passione, non conosce né categoria né logica. Io mi sono fidato del mio istinto e ho fatto bene, qui a Pesaro mi trovo benissimo e la partnership con la Sampdoria del mio maestro Giampaolo è stata una vera e propria genialità. E’ la modalità giusta per far crescere i ragazzi che escono dalla Primavera perché li inserisci in un contesto di squadra eterogeneo dove ci sono anche i ‘grandi’ che se, per dirti, perdi la partitella d’allenamento ti danno qualche scappellotto. Finora sta andando bene e non parlo di risultati perché mi interessano relativamente, quello che voglio è veder i miei ragazzotti diventar uomini e che ogni giorno escano dal campo con il sorriso, allora sì che avrò vinto…”.

Salutiamo Leonardo. Figlio della gavetta, paladino della semplicità. Oltre ogni inutile formalismo, oltre ogni futile sovrastruttura. Perché nel calcio, come nella vita, siamo spessi legati al risultato, è vero. Ma esser se stessi è una vittoria a priori…