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La sua Inter, il basket, i ricordi di papà Valentino. Mazzola: “Puskas disse che ero alla sua altezza: mai stato tanto felice”

Un viaggio splendido in un mondo di ricordi. Papà Valentino e il Torino, la passione per il basket e gli inizi tra palla a spicchi e canestro, Inter e Nazionale. In una bella e lunga intervista concessa al Corriere della Sera, Sandro Mazzola ha voluto così sfogliare il proprio libro di indimenticabili memorie, partendo proprio da un aneddoto vissuto fianco a fianco con il compianto papà: “Entro al Filadelfia, vestito da Toro, con mio padre. La sua mano destra stringe la mia. Mi poggia la sinistra sulla testa. Tiro il rigore. Bacigalupo agita le braccia come fa in campionato; la porta è piccolissima, lui enorme; poi però si butta da una parte, e io la piazzo dall’altra. Bacigalupo strizza l’occhio a papà. Io faccio il giro del campo esultando. Avevo l’armadietto negli spogliatoi accanto a quello di papà, lo adoravano: entravamo in campo per mano. Nei derby guardavo di brutto il figlio di Depetrini, il capitano della Juve. Giocavo a pallone con le figlie di Grezar e la figlia di Loik: ci sentiamo ancora. E andavo a casa del presidente, Ferruccio Novo: non aveva figli, mi aveva un po’ adottato”.

Ma come entrò, Valentino Mazzola, nel mondo del calcio? “La sua era la famiglia più povera di Cassano d’Adda. Cinque fratelli. Il maggiore entrava e usciva di galera: ebbe sessanta condanne per furto. Papà scappò di casa perché non voleva andare a rubare. A Venezia si arruolò in marina e chiese invano di provare nella squadra di calcio. Intervenne uno zoppo che faceva da talent scout: “Questo ragazzo è bravo!”. Scoppiò la guerra, il campionato fu sospeso. L’alternativa era la Russia o la fabbrica. Poi papà vinse 5 scudetti, ma per arrotondare dovette aprire un negozio dove vendeva palloni”. Dall’inizio di un mito alla fine del sogno a Superga, purtroppo, il passo fu breve: “Nessuno mi disse nulla. La compagna di mio padre mi rapì e mi affidò a una coppia di amici, che viveva in un mulino. Mia mamma Emilia chiese aiuto ai carabinieri e ai tifosi del Toro, che battevano le campagne per cercarmi. Mi trovarono dopo un mese e mi riportarono a casa. Scoprii solo allora che avevo un fratello. Si chiamava Ferruccio, come il presidente. Non mi raccontarono della tragedia: mi dicevano sempre che papà era in viaggio. Un giorno mi ero nascosto sotto il tavolo per fare le radiocronache — Nicolò Carosio parlava chiuso in una cabina, era il mio modo di imitarlo —, e sentii la mamma sfogarsi con un’amica. Trovai la conferma di quel che avevo intuito: mio padre non sarebbe mai tornato”.

Poi, gli inizi con il basket e l’Inter: “Mi allenavo con il Simmenthal, ma la mia passione era il calcio. Giocavamo a Porta Ticinese, alle colonne di San Lorenzo. Arrivai all’Inter grazie a Benito Lorenzi, detto Veleno. Personaggio da romanzo. Cattolicissimo, non perdeva una messa. Buono d’animo, terribile in campo. Provocava Boniperti chiamandolo Marisa, con Charles metteva in dubbio la moralità della regina. Prese me e mio fratello sotto la sua protezione: entravamo a San Siro vestiti da Inter, ci sedevamo accanto alla panchina. Se l’Inter vinceva, Lorenzi faceva dare anche a noi le 30 mila lire di premio partita”. E quegli inizi con Meazza allenatore nelle giovanili…”Una volta urlai dietro a un compagno che non mi passava la palla. Meazza a fine partita mi chiama e mi fa: “Pastina, mi ho vinciücampionà del mund, e ho mai vusàdré a un me compagn. Se te ciapi un’altra volta, ti te giughet ”.

Tempo infine dei primi successi con Herrera e di dialoghi con miti del calcio: “Esordii in Juve-Inter 9-1, Angelo Moratti aveva schierato la Primavera per protesta. Boniperti venne a salutarmi: “Lo sai che di nascosto andavo a vedere le partite di tuo padre? Era il più grande”. Feci l’unico gol dell’Inter. Poi, la Coppa dei Campioni: all’ingresso mi incantai a guardare Di Stefano. Non ho mai visto un calciatore più forte, tranne forse Ronaldo prima dell’incidente. E poi tutti mi dicevano che ricordava mio padre: salvava un gol sulla linea e andava a segnare. Suarez, il vero leader della Grande Inter, mi richiamò: “Resti a guardare Di Stefano o vieni con noi a giocare la finale?”». E feci due gol, esultando come quando segnavo il rigore a Bacigalupo. Alla fine andai da Di Stefano a chiedergli la maglia, ma mi fermò prima Puskas. “Ho giocato con tuo padre, sei alla sua altezza” mi disse. Non era vero; ma non sono mai stato tanto felice in vita mia”.

E sulle pastiglie di Herrera, denunciate dal fratello Ferruccio…”È vero. Ci dava una pastiglietta, che noi sputavamo. Così cominciò a scioglierla nel caffè. Non ne sentivo alcun bisogno, ma erano pratiche correnti nel calcio dell’epoca. Ferruccio aveva motivi di rivalsa nei confronti dell’Inter. Prima che morisse ci siamo riconciliati, ridendone. Il vero doping del Mago era psicologico: diceva “Oggi si vince facile. Prima della finale del ‘65 col Benfica ci convinse che Eusebio, uno che ha segnato più di 700 gol, fosse una pippa. Invece era più forte di Cruijff. Guardava a destra, ti metteva la palla sul piede a sinistra. Ma vincemmo anche quella Coppa Campioni. Helenio ci portava da Padre Pio? Sono molto credente e queste cose di gruppo non mi piacevano. Così chiesi un incontro privato. Avevo un rovello da sciogliere: da bambino avevo fatto un voto, ero disposto a morire giovane come mio padre pur di diventare anch’io un campione. Quando lo rivelai al mio confessore mi negò l’assoluzione, disse che era un sacrilegio. Padre Pio ne sorrise“.

Infine, la Nazionale, il mercato e la staffetta con Rivera: “Prima dei quarti con il Messico ebbi problemi di stomaco: la vendetta di Montezuma. Concordai con Valcareggi che avrei giocato solo un tempo. Però con la Germania stavo bene. Quando mi lasciò negli spogliatoi gettai le scarpette, dissi brutte parole. Con il Brasile invece giocai tutta la partita: nell’intervallo mi stavo già cambiando, ma il ct mi fermò. Valcareggi ci dava del lei, con 24 ore di riposo in più, quella partita potevamo vincerla. Ma eravamo distrutti. Alcuni pisciavano sangue. Con Gianni i rapporti erano ottimi: fondammo insieme l’associazione calciatori. Il rivale semmai era Facchetti, per la fascia di capitano. Io avevo più anni di Inter, lui esplose prima. Forse aveva ragione Giacinto. Io al Milan? Ne parlammo con Rocco all’Assassino, il suo ristorante preferito. Ma all’Inter non mi presero sul serio: “E noi chiediamo Rivera”. Comunque Rocco mi stimava, a modmodo suo. In un derby segnai al primo minuto, ed esultai davanti a lui urlando: “Ciao paron!”. Mi mise Trapattoni a uomo, e non toccai più palla. Alla fine si avvicinò e mi disse: “Ciao mona!”. E anche Agnelli mi voleva alla Juve: era il 1967, avevamo perso lo scudetto a Mantova, il ciclo era finito. All’uscita dall’allenamento incontrai Mattrel, l’ex portiere della Juve. Era la prima volta che vedevo una macchina col telefono. Mi passò l’Avvocato, che mi diede appuntamento a Villar Perosa. Mi offrì una concessionaria Fiat, un’agenzia Sai, e il doppio dello stipendio. Chiesi un giorno di tempo per consultarmi con mia madre, che mi disse che mio padre si sarebbe rivoltato nella tomba, che non sarebbe stato possibile che il figlio del capitano del Toro giocasse nella Juve“. E un ultimo, dolce desiderio: “Cerco papà da sempre. Sento che lo ritroverò e giocheremo insieme, come nei sogni. Siamo al Filadelfia. Io gli passo la palla, e lui segna. Non c’è Bacigalupo, il portiere non si vedemai. Poi lui la passa a me, e io segno. Poi mi sveglio”.