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“La lunga strada che conduce alla tua porta, non scomparirà mai”. Buon compleanno, Gigi Buffon

Un amore così lungo – quello tra Gianluigi Buffon e il gioco del calcio – non ve lo daremo in fretta. E non staremo qui ad elencarvi record, numeri, presenze, date. Quindi mettetevi comodi. Perché l’amore è istinto, è non dormire la notte per quella morsa che ti prende il petto e la testa. Ci potresti impazzire, dietro quella morsa. L’amore è un gesto. E anche lo sport lo è. Quel gesto che Buffon ha ripetuto migliaia di volte, sublimandolo. L’amore – per il calcio, per una persona, per un luogo – è un ricordo che riesce a sciogliere il freddo anche a distanza di anni. No, niente numeri, coppe e trofei. Li sapete a memoria. Un amore lungo 40 anni, faremo finta che sia proprio Buffon a raccontarvelo.

Disclaimer: le parole che seguiranno, anche se declinate in prima persona come in una sorta di monologo il cui protagonista è Buffon, restano frutto della fantasia dell’autore dell’articolo.

SCENA PRIMA (E UNICA). VERONA, ESTERNO NOTTE. LA VIGILIA DEI QUARANT’ANNI DI GIANLUIGI BUFFON, I SUOI FLUSSI DI COSCIENZA

Mancano pochi minuti all’inizio di Chievo-Juventus, le squadre stanno per entrare in campo. Le riserve, tra cui Gigi, ci sono già.

Sono Gianluigi Buffon e tra un paio d’ore compirò quarant’anni. Sono reduce da un infortunio abbastanza fastidioso, non gioco più o meno da due mesi. Oggi rientro in squadra, ma non sarò titolare. Devo preservarmi, forzare è inutile. Ho quarant’anni. Non importa se a fine anno – forse – smetterò. Ho detto forse? Sì, perché in fondo non lo so ancora. Quello che so è che io mi sento un calciatore e devo pensare da calciatore. La stagione è ancora lunga, ci sono ancora sogni che posso prendermi. Dunque aspetto, tornerò in porta martedì a Bergamo. L’attesa per il mio quarantesimo compleanno l’avevo immaginata in tanti modi, ma non così: seduto in panchina, un freddo sabato sera a Verona, a soffrire per la mia squadra. A fine partita mancherà poco alla mezzanotte e a quel punto, già lo so, il risultato della Juventus passerà un po’ in secondo piano qualunque esso sia e sarò subissato di auguri da ogni parte del mondo. E ne sarò orgoglioso. Sento che gli attestati di stima che riceverò saranno speciali, andranno oltre i riconoscimenti, i premi, i trofei ottenuti. Queste due ore, però, sono solo mie. Mie e del calcio. Posso anche distrarmi un po’. Caspita, mi sono distratto davvero, è già cominciata. Io, invece, quand’è che ho cominciato? Ad amare il calcio, non lo ricordo. Quell’amore è nato con me. Ma a giocare in porta? Beh, quello sì. La storia che cominciai da centrocampista la sapete, il perché finii a difendere la porta forse non lo so nemmeno io. Il caso? Forse. Era il 1992, al Parma ero arrivato da centrocampista e poi si fecero male tutti i portieri. Credo che il caso non esista, sia solo il destino che si maschera da imprevedibilità. Questo amore per il calcio, dopo 40 anni, sento di poterlo vivere “in esclusiva” proprio perché gioco in porta. Dopo tre anni mi ritrovai ad esordire in Serie A, a parare in faccia a gente come Baggio e Simone. Mi ricordo che mi sembrava di sognare, e invece… Quel gesto, la parata. Era tutto reale. Poi ne vennero altre: il rigore a Ronaldo, sotto avevo la maglia di Superman… il tiro di Recoba tolto dall’incrocio… la doppia parata su Spinesi a Bari…

Durante il primo tempo di Chievo-Juventus, intanto, succede poco o nulla. Le uniche distrazioni per Buffon di fatto sono le urla di Allegri e la tensione dopo il doppio giallo per Bastien, che lascia i padroni di casa in dieci.

Dov’eravamo rimasti? A Superman? Un vero supereroe però mi sentivo quando indossavo l’altra maglia azzurra, senza la S sopra. Quella che mi ha fatto versare lacrime che forse non pensavo nemmeno di avere, a quasi 40 anni. A San Siro, il 13 novembre, mi sono sentito come un supereroe sconfitto. Quella serata è stata la mia kryptonite. Non era la tristezza per il mancato record di 6 mondiali, non era il fallimento del calcio italiano. Era l’aver deluso quei bambini che sognavano la Nazionale. Sì, a loro chiesi scusa. E mentre lo facevo, ripercorrevo la mia storia con quella maglia. Iniziata nel freddo e nel gelo di Mosca, io a maniche corte, il campo infangato. Ma anche qui, mentre i brividi di adesso non so se associarli al ricordo di quel freddo, al freddo di stasera o semplicemente a questi ricordi… Anche qui, la costante sono le parate. I miracoli contro Paraguay e Bulgaria. Una costante che all’inizio non riesce a farsi strada. Perché il Mondiale 1998 non lo gioco, Euro 2000 lo salto. Giappone e Corea… lasciamo perdere. Poi, però, l’abbraccio che riesce a ricucire tutte le ferite. E la costante è lì, che ritorna. Non solo vinco il Mondiale, ma lo faccio con delle parate decisive. Quelle di Dortmund. “Un muro”, diceva quella telecronaca. La parata su Zidane a Berlino vale come aver parato tre rigori nella serie finale. Campioni del Mondo, riesco a scaldarmi anche su questa fredda panchina. L’armonia ritrovata me la porto dentro anche quando l’epilogo non è stato dorato. È l’armonia che mi permette di parare quasi tutto 10 anni dopo, dopo le delusioni in Sudafrica e Brasile, dopo la batosta contro la Spagna. 10 anni dopo, sempre contro la Germania, agli Europei. Altre immagini che scorrono, altre lacrime versate. Ma con orgoglio e a testa alta, a volte mi piace pensare che sia quello il vero epilogo della mia storia in azzurro.

La Juventus sblocca il risultato con Khedira e lo mette in banca con Higuain. Tre punti, massimo risultato, poco sforzo.

Tanto azzurro, però, non ci sarebbe stato senza il bianconero. E allora eccomi qui. Anche se stasera giochiamo in verde. Io, il bianconero vero e proprio, l’ho indossato soltanto una volta. Cromaticamente parlando, eh. Perché il bianconero in assoluto mi scorre dentro. Ha iniziato a farlo anche quando il peso di quei 105 miliardi era ancora così forte da impedirmi di essere me stesso. Cercavo la leggerezza del mio esordio in Serie A, trovavo la pesantezza di quella cifra, dell’eredità di tante leggende da raccogliere. Poi, non so come, l’ho ritrovata. Anzi, in realtà lo so: ancora loro, le parate. La prodigiosa meccanica dei gesti. Mi sono innamorato di nuovo del mio talento, della mia vocazione. Nella seconda stagione (02/03) sono ritornato Superman. Anzi, mi sono consacrato come Buffon. Per questo la notte di Manchester è ancora più amara. Il miracolo su Inzaghi, i rigori parati… e la sconfitta. L’inizio di un periodo più nero che bianco, dentro e fuori dal campo. Anzi, chiamiamola con il suo nome: depressione. L’esuberanza della gioventù che si trasforma in un mantello che avvolge e impedisce di guardare oltre. Poi, però, ho messo in panchina anche lei. E sono diventato inscalfibile. Anche quando mi sono ritrovato a parare sui campi di Rimini e Frosinone, dopo aver parato a Berlino. Prodigiosa meccanica dei gesti: quella doppia parata contro il Bologna, chi se la scorda. La lunga risalita, verso le tante vittorie, non mi ha fatto paura. Anche perché ad accompagnarmi ci sono sempre state loro: le parate. Alcune, belle e importanti, al mio amico e quasi coetaneo Totti; quella che quasi quasi mi rompe un braccio su una punizione di Roberto Carlos; quelle di Cagliari, il primo anno di A dopo la B; tutte le risposte date in campo ogni volta che fuori veniva sottolineato come l’età stesse avanzando. E invece no, io sempre lì. A parare. Su Dani Alves a Berlino, su Iniesta di puro istinto, in quella serata di Lione, a Kalinic per vincere l’ennesimo scudetto, a Balotelli a San Siro.

Buffon si alza dalla panchina, sorridente. Saluta tutti, c’è già chi gli fa gli auguri. Si avvia verso lo spogliatoio.

Triplice fischio, qui a Verona è finita. Mi sveglio da questo lungo film. Ma realizzo che è stato tutto vero, provato, vivo. Il fatto che molte parate siano state sinonimo anche di sconfitta, non solo di vittoria, mi convince che non ce n’è una più bella dell’altra. Ma che la più bella è la prossima. È per quello che posso ancora fare, che ho trovato su questa panchina alcuni biglietti di auguri disegnati dai bambini. È per quello che posso ancora fare che sì, forse smetterò. O forse no, continuerò. È per quanto ancora posso dare che forse vincerò la Champions League, o forse continuerà a sfuggirmi come una ragazza che incontri sul tram ogni giorno, senza aver mai la fortuna o il destino di riuscire a prenderla per mano. Sono Gigi Buffon e ho appena compiuto quarant’anni: è per tutto quello che ho fatto che stasera dico grazie. Alla vita, al calcio, all’incondizionata venerazione che ho nei suoi confronti. Per questi quarant’anni e per i prossimi.