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La fuga dal Senegal, l’arrivo in Italia e l’esordio con il Pescara. Coulibaly: “I miei genitori mi credevano morto”

Dall’arrivo col barcone, all’esordio in Serie A. Sta vivendo una favola Mamadou Coulibaly tesserato un mese fa dal Pescara al compimento del 18esimo anno di età (qui la storia). Il ragazzo venuto dal Senegal racconta la sua storia alla Gazzetta dello Sport, dalla fuga dal suo Paese al sogno della Serie A: “Sono andato via con uno zaino. L’ho detto solo a Mamadou, il mio migliore amico: i miei genitori pensavano fossi a scuola. Ho spento il telefono, non li ho chiamati per 3-4 mesi. Mi credevano morto”.

Eppure la sua non era una famiglia povera: “A casa avevo da mangiare, eravamo io e le mie due sorelle. Papà però non voleva farmi giocare. Per lui era importante solo studiare, la nostra è una famiglia di insegnanti: professore di educazione fisica lui, professoresse di altre materie le mie zie. Mi diceva che mi avrebbe portato in qualche squadra europea ma era solo per tenermi buono. Io ho rischiato la vita per il calcio, ma l’ho fatto anche per loro: presto potrò aiutarli”.

Da Thiès al barcone, un lungo viaggio: «Ho viaggiato in autobus. Ho pagato il biglietto da Dakar al Marocco e non è stato pericoloso. E’ stato peggio dopo. In Marocco dormivo al porto, non avevo i soldi per la barca. Un signore mi ha visto per alcuni giorni e mi ha chiesto che facevo lì, a dormire per strada. Gli ho risposto che volevo andare in Europa. Dopo qualche giorno, è tornato: lavorava su una nave che andava in Francia, mi ha detto che potevo salire. Il barcone non era come quelli che si vedono in tv, era più grande e trasportava cibo. Con me c’era una ventina di ragazzi. Io ero lì per il calcio, loro non so: non conoscevo i loro sogni. In Italia a volte la gente mi ha detto “barcone” per insultarmi e io non ho reagito. Ho viaggiato così e poi non sono migliore di tutti gli altri ragazzi arrivati in Italia con la barca”.

Tutto è andato bene anche se qualche rischio c’era: “Non è stato pericoloso però io non so nuotare. Se quella barca si fosse sfondata, sarei morto, ma ora non ci penso. Sto bene, mi sento fortunato. I miei genitori mi dicono di rimanere così, una persona buona”.

Marsiglia, Grenoble da una zia, Livorno, Roma, Pescara. Quali sono stati i momenti difficili? “L’inizio a Livorno. Un uomo mi aveva portato lì per presentarmi ad alcune squadre, poi una mattina mi sono svegliato in un albergo e non c’era più. Non avevo soldi, non conoscevo nessuno, non parlavo italiano. Mi hanno visto giocare in spiaggia e portato a un provino per il Livorno, che mi voleva. Io però non avevo i documenti”. E allora: “Dormivo per strada e magari in un giorno mangiavo un panino. Sono stato a Roma, poi mi hanno detto che a Pescara c’erano tanti senegalesi, allora ho preso un treno senza pagare il biglietto. Sono sceso a Roseto, la fermata sbagliata, e ho dormito al campo sportivo. I carabinieri mi hanno trovato e portato in una casa-famiglia a Montepagano”.

Poi finalmente la svolta: un anno di allenamenti e due partite con la Primavera: “Ho fatto provini con Cesena, Sassuolo, Roma e Ascoli, ma non mi ha preso nessuno. Ho fatto un po’ di scuola-calcio da piccolo in Senegal e ho imparato giocando per strada, in tanti tornei a cui partecipano anche calciatori di B. Il resto, in tv: ho sempre guardato tante partite e imparato i movimenti».

Due giorni fa l’inizio di un sogno: “Pescara-Milan mi ha fatto capire che forse posso giocare anche a questo livello. Sono sicuro perché giocare mi viene naturale. Il Milan è una delle squadre per cui tifo: la Francia, il Manchester United e il Milan”.

Il rapporto con il papà che ora sembra essersi ricucito: “Domenica ha visto la partita in tv. Lui è duro, due anni fa non potevo dirgli che ero in Francia: mi avrebbe fatto tornare. Ora ci sentiamo ogni giorno, dice che è felice e mi ha chiesto scusa. Non vedo lui e mia mamma da due anni e mamma mi manca. Quando sono partito ha pianto, non credeva che fossi ancora vivo”.