Quando Renè Higuita si faceva rubare palla a centrocampo da Roger Milla, Yerry Mina non era ancora nato.
Era il 1990, l’Italia ospitava il Mondiale e la Colombia si arrendeva al Camerun negli ottavi di finale. Il bello è che Yerri, oggi, poteva essere al suo posto. Sì, fra i pali e con i guantoni alle mani.
Proprio come papà Josè e lo zio Jair. Fisico imponente, così alto da essere soprannominato El Obelisco. Insomma, aveva tutto per proseguire quella che era una tradizione di famiglia.
Poi, però, ha deciso di fare qualche passo in avanti in più. Ruolo difensore, con la passione dell’anticipo e del…gol.
Come quello di oggi in una Kazan Arena quasi del tutto gialla. Un colpo di testa dei suoi su un assist al bacio di Jesè Rodriguez. Szczesny battuto e danze aperte.
Questa volta non ha esultato in mutande, come due anni fa con l’Uruguay. Certo, il balletto non poteva mancare, ma quello ce l’ha nel sangue.
Lo faceva anche quando giocava scalzo per le strade dislocate di Guachenè, laddove di talenti ne sono nati eccome. Cristian Zapata, tanto per dirne uno. Davinson Sanchez anche, il peggiore in campo nella sconfitta all’esordio con il Giappone.
'Ingannato' da Osaka sull’azione che ha portato al rigore e all’espulsione di Carlos Sanchez, ha sofferto le incursioni delle mezzali giapponesi senza mai riuscire a reggerne l’urto. Accanto a lui c’era Murillo, oggi invece ecco Yerry.
E la differenza si è vista, chiedere a Lewandowski per ulteriori conferme. Ha sofferto il polacco, tanto. Chissà che questo duello non possa ripetersi.
In una notte di Champions magari, perché Yerry Mina adesso vuole prendersi il Barcellona, lui che è il primo colombiano della storia ad averci giocato.
Si vuole staccare dalle spalle l’etichetta di giovane talento, quello che nel giorno della presentazione palleggiava scalzo sul prato del Camp Nou, urlando a squarciagola Visca Barca quando ormai allo stadio non era rimasto più nessuno. “Ogni luogo che la pianta del vostro piede calcherà, sarà vostro” si legge nel Deuteronomio.
La speranza è che i 377 minuti giocati da gennaio a oggi con i blaugrana possano presto aumentare.
Lui intanto gioca e segna al Mondiale, con un pensiero a mamma Marianella, che gli ha trasmesso quei sani principi senza i quali, probabilmente, non sarebbe arrivato fino alla notte della Kazan Arena.
Sugli spalti, ad abbracciare Higuita, c’erano anche i riccioli di Carlos Valderrama. Uno dei migliori centrocampisti della storia del calcio colombiano, uno che sapeva smarcare i compagni con tocchi di prima e passaggi lunghi.
C’era anche lui nella spedizione di Italia ’90. Oggi, forse, si rivede un po’ in Juan Fernando Quintero.
Classe 1993, un ragazzo con già tanto alle spalle. Fin dall’infanzia, quando papà Jaime decide di abbandonare lui e la mamma.
Un fisico che non voleva saperne di svilupparsi a rendere tutto più difficile. “Non giocherai mai a calcio”, si sentiva dire dopo ogni provino nel suo Barrio, nel cuore di Antioquia.
Ma lui ci sapeva fare, lo aveva dimostrato già a 8 anni, quando incantava fra le vie del quartiere El Socorro. A puntarci lo zio Freddy, grazie al quale qualche giorno fa Quintero è diventato il primo giocatore colombiano a segnare in due diverse edizioni del Mondiale.
Sì, perché il ct Pekerman ci ha puntato fin dal primo momento in cui ha messo piede sulla panchina della Colombia.
Lo convocò per la prima volta a 19 anni, nel maggio del 2012. Ha continuato a farlo nonostante gli ultimi difficili anni europei con Porto e Rennes.
Oggi con la Polonia è semplicemente il migliore in campo, si intende a meraviglia con il suo amico James, con cui è cresciuto nelle giovanili dell’Envigado e che gli lasciò la dieci del Porto.
Crea gioco e serve a Falcao la palla per il 2-0 . Lancia la sua Colombia nel girone, con vista ottavi. Alla faccia di chi gli diceva che a calcio non ci avrebbe mai giocato.