Fuggire e rifugiarsi sopra un palco. Dove esibire passioni e talenti alternativi, dove “attaccare” non significa puntare la porta. “Sono sempre stato impulsivo e sensibile. Nel calcio non c’è spazio per la sensibilità. Ero stanco di essere un numero. Adesso vedi come sono felice?”.
Pablo Daniel Osvaldo ride, non sorride. È la notte del suo primo concerto in Italia. “Mi tremano più le gambe ora di quando giocavo. Quando canti la gente è più vicina, senti tutto quello che dicono”.
Dai 70mila della Bombonera ai 150 del Pocoloco, piccolo pub di Paganica, frazione dell’Aquila. Il terremoto del 2009 ha lasciato cicatrici ancora evidenti, ma il tempo cura le ferite. La gente qui è abituata a ripartenze più faticose rispetto a quella di Osvaldo, ma simpatizza con chi ha voglia di ricominciare. Da qui, tra birre e waffle, sabato sera è iniziato il tour italiano dei suoi “Barrio Viejo”. Locale esaurito, ambiente rilassato.
Comincia così la ricerca della felicità di un ragazzo del 1986 che a trent’anni ha detto addio al pallone. In fuga da “un mondo finto, dove se fai gol sei un dio e se non lo fai sei una m…a. E il calcio di oggi è come il reggaeton: una musica di m..da che però piace alla gente. È un freddo business, dove nessuno pensa a come stai ogni giorno”, si confessa al microfono di gianlucadimarzio.com.
Anche per questo, il suo primo album si chiama Liberaciòn. “Ho scritto tutti i testi: parlo di esperienze personali, di amore e di problemi sociali. Il rock and roll è sempre contro il potere”. Il microfono al posto del pallone e un palco grande come l’area piccola. Il Daniel frontman è libero di essere ribelle senza incorrere in sanzioni. Una sigaretta di troppo gli costò il posto nel Boca. Oggi è quasi parte del costume di scena. Nessuna bilancia giudicherà un paio di birre e fare l’alba sarà come rimanere a tirare le punizioni.