Milan, tumore, Nazionale, Sassuolo: Francesco Acerbi racconta la sua storia. Dalle serate all'Hollywood al periodo difficile della chemio, affrontato sempre con il buon umore, fino alle opportunità di mercato. Si parte dalle domeniche milanesi:
"Acqua passata, ma non lo nego e non rinnego: fare serata è stato un chiodo fisso" - si legge nelle pagine de La Gazzetta dello Sport -"Aperitivo, ristorante, discoteca, rimorchio, Verona-Milano andata e ritorno anche solo per una cena, cavolata compresa: una volta nella nebbia portiera dall’auto e guardrail fecero amicizia. Finita qualsiasi partita ero fuori dalla doccia dopo 5’ e non c’erano né santi, né infortuni. Più volte sono andato ad allenarmi dopo aver dormito due ore, ma nessuno poteva dirmi nulla: quando si correva c’ero io davanti a tutti, e andavo il triplo degli altri". Sulla mancata convocazione per Euro 2016: "Di Conte non parlerò mai male e non mi doveva spiegazioni, però star fuori dall’Europeo fu una botta: pensavo di essere fra i 23. Forse è per questo che tornare in Nazionale sarebbe un motivo d’orgoglio: ma non è un’ossessione. Ci credo perché al Mondiale manca tanto, do il massimo da tre anni e darò ancora di più, ma se Ventura continuerà a non chiamarmi, amen".
Cura durante la chemio? Masterchef: "Sono diventato fan di Masterchef durante la chemio: lo guardavo per farmi venire fame, se un piatto mi ispirava mettevo in mezzo mio fratello: “Chicco, vai a comprare gli ingredienti: ci proviamo”. Avevo già avuto un maestro a Reggio Calabria, il mio coinquilino Lorenzo Burzigotti. Da allora mi arrangio, e senza i consigli della mamma: per spiegarmi una ricetta ci mette sei ore e le metto giù il telefono". Il tumore e la guarigione: "Molto peggio la prima della seconda volta. Quella parola non osavano dirmela: “Ci sono dei linfonodi...”. “Cioè?”. “Può essere un tumore”. “E chiamatelo con il suo nome, no?”. La seconda volta fu una sfida: “Quando inizia la chemio?”. E andavo all’Hollywood lo stesso, tanto non mangiavo, non dormivo e alle ragazze andavo bene comunque: “Ma tu come fai a venire a letto con me, conciato così?”. Paura, oggi? No. Mi hanno spiegato che potrò essere padre: “Basta un testicolo sano, l’altro è in appoggio”. E se proprio dovesse arrivare un’altra recidiva, arriverà. Mi dispiacerebbe per mia mamma: fra me e la morte di papà ha già sofferto abbastanza".
Il Milan: "Dopo i video di Weah e le partite in curva da tifoso, il Milan diventò obiettivo un giorno a Pavia, seduto sul divano davanti alla tv. Inquadrarono la panchina rossonera e la tribuna vip di San Siro e mi dissi: “Io voglio giocare lì”. Due anni dopo ero lì, ricordo l’abbraccio con mia mamma dopo la firma in via Turati: “Ce l’ho fatta”. Ce l’avevo fatta pur non essendo un santo, tant’è che mi avvisarono subito: “Tu abiterai a Gallarate”. Mi sentivo arrivato: “Ma allora posso continuare a fare la stessa vita...”. E sparai: “Starò qui dieci anni”. Con la testa di adesso avrei potuto, ma vivevo nel mio mondo fatto di alibi, 4-5 chili sovrappeso: mi scivolava addosso tutto, anche le frasi di Allegri e di Galliani, che pure sapeva come parlarmi e non avrebbe voluto mandarmi via. Avevo già perso in partenza. Ma nonostante tutto il Milan non è un ricordo doloroso, se ci ripenso mi dico “Ma che peccato” come quando feci il viale di Milanello per l’ultima volta. Sì, ero ancora acerbo: di cognome e di fatto".
Opportunità del passato e del futuro: "Leicester? Era una buona chance: il fascino della Premier League, avrei giocato la Champions. Sentii Ranieri tre volte, fui molto chiaro: “Se il Sassuolo apre la porta vengo volentieri, altrimenti nulla: non vado allo scontro per andarmene a gennaio con un club a cui devo solo tanta riconoscenza”. Fosse stato l’Arsenal, chissà... Ora non so se mi ricapiterà la stessa chance: non arrivo a pensare fino a giugno e non è neanche scontato che lascerò il Sassuolo". Leicester o Inter? Scelgo l’Inter, tutta la vita". Su Berardi: "Ogni tanto mi chiedo: perché non è già al Real Madrid? In Italia uno con la sua qualità non c’è e ora gli è pure cambiata la testa da così a così. Il talento no: fantastico era, fantastico è. Come la sua velocità di pensiero: capisce la giocata prima e usa quella frazione di secondo per fregarti. Ha pure rischiato di fregarsi da solo, con le sue reazioni in campo: quante volte gli ho dovuto dire “Bera, se fai così ti etichetti per sempre”. Sul futuro no, zero consigli: non si sentiva pronto per il salto e voleva farlo alle sue condizioni. Adesso sì. Non andrebbe mai dove gli dicono gli altri. La Juve lo sa? Appunto. E l’esempio di Zaza non è stato di sicuro una spinta".
Rapporto con il padre: "Era una sfida perenne, che cominciò con il calcio. Era patito di motocross, non gliene fregava nulla che giocassi, ma se perdevo o facevo schifo mi stava addosso. Un po’ mi buttava giù: a 15 anni rischiò di farmi smettere, continuai solo per provocarlo. Il 31 gennaio 2011, quando mi prese il Genoa, gli tirai il foglio con il contratto: “Non ci credevi: visto?”. Se gli mancavo di rispetto si arrabbiava, quella volta rimase zitto. Morì poco più di un anno dopo, era malato di cuore: passati quattro mesi andai al Milan, e quanto mi mancò lo stimolo di non farmi rompere le palle da lui". Soprannome? Leone: "E’ vero, mi chiamano leone e io chiamo quasi tutti così: lo dico in continuazione. Se non ti fidi di me, se non mi dai una lira, l’istinto è quello: dimostrarti che poi finisce come dico io. Mi è successo nel calcio, mi è successo con la malattia, e ora so come faccio a vincere: è quando capisco che non sto sfidando un avversario, ma soltanto me stesso".