Non serve vedere. La maglia gli copre il viso, ma anche se fosse scoperto, gli occhi resterebbero chiusi. Non serve vedere, se hai appena segnato il gol del vantaggio per la tua squadra in finale di Champions League. “In quel momento mi sono sentito l’uomo più forte del mondo”, ci dice Fabrizio Ravanelli, in esclusiva a gianlucadimarzio.com. E la voce tradisce l’emozione, nel ricordo della serata “più bella della mia carriera”. 22 maggio 1996, sono passati 24 anni dalla finale di Roma che consacrò la prima Juventus di Marcello Lippi sul tetto d’Europa. Ma per Ravanelli il tempo sembra essersi fermato lì, cristallizzato, sotto quella maglia e nel boato della gente dell’Olimpico, “di fronte alla quale non potevamo non vincere”.
Fabrizio Ravanelli esulta dopo l'1-0 segnato contro l'Ajax
Una squadra in missione, quella Juventus. La “Juve dei Rambo”, come venne soprannominata, che – a proposito di corsi e ricorsi – un anno e un giorno prima di quella finale, il 21 maggio 1995, era tornata a vincere uno scudetto dopo 9 anni. “Come siamo arrivati alla sfida con l’Ajax? Alla grande, l’avevamo preparata benissimo andando in ritiro alla Borghesiana qualche giorno prima. Anche se… almeno io, non ho dormito per quindici giorni prima della partita. Arrivati alla vigilia, finito l’allenamento, chiesi a Vialli sotto la doccia: Hai dormito in queste notti? Mi rispose: Non ho dormito niente…, Beh, allora siamo in due, gli dissi”. La tensione, però, non giocò brutti scherzi: “Volevamo vincere a tutti i costi, ci univa un senso di appartenenza alla maglia e alla società, oltre al fatto che 9/11 di quella squadra erano italiani. Affrontavamo una delle squadre più forti d’Europa, che l’anno prima aveva battuto il Milan. Ma onestamente, passami il termine, li abbiamo ‘stritolati’, giocando un calcio straordinario. E avremmo meritato di vincere ben prima dei rigori”.
Bastò poco a Marcello Lippi per toccare le corde giuste. Quelle corde erano già tese e non aspettavano altro: suonare una dolce sinfonia europea. “Per un allenatore queste partite sono facili da preparare, sul piano psicologico. Eravamo concentratissimi, sul pezzo, avevamo curato ogni dettaglio, nessuno aveva sgarrato nemmeno col cibo. Lippi ci disse di andare in campo e vincerla, quella coppa, per tutti i sacrifici fatti fino a quel momento, per i chilometri corsi, per la fatica lasciata in campo. E per la nostra gente, che quella sera si era riunita a Roma, davanti a tutta Italia. Quelle parole arrivarono dritte al cuore”.
Fabrizio Ravanelli e Alessandro Del Piero con il trofeo della Champions League
Il pareggio di Litmanen scalfisce solo per qualche minuto le certezze della Juve: “Sì, subire gol in quel modo ci turbò. Ma poi tornammo in campo consapevoli che avremmo potuto segnare ancora. Per un po’ di sfortuna non accadde, ma le occasioni le abbiamo avute: Del Piero, Vialli”. Ma non Ravanelli, sostituito al 77’: “Che sofferenza atroce, dalla panchina. Ma continuai a incitare i miei compagni”. Fino al 120’: “Per tutta la gara la sensazione era stata che in un modo o nell’altro l’avremmo vinta, perché ce la meritavamo. I rigori sono spesso una lotteria, ma in quel caso premiarono la squadra più lucida fisicamente e mentalmente. Furono quattro rigori perfetti: Ferrara, Pessotto, Padovano, Jugovic. E poi Peruzzi... Di quegli attimi ricordo poco, ma la convinzione che loro non ci avrebbero traditi, sì che la ricordo”.
Ricorda anche la festa negli spogliatoi, la coppa piena di champagne e la foto con Platini, Fabrizio Ravanelli. E un aneddoto sull’Avvocato Agnelli e il nipote Andrea, oggi presidente della Juventus. “Andrea mi dice ancora oggi che l’avvocato, in occasione del mio gol, non capì subito che la palla fosse entrata e che fu lui a dirgli: ‘Sì che è entrata!’. 24 anni dopo, Andrea Agnelli è il capofila di un popolo, quello bianconero, che aspetta di rivivere quelle emozioni: “Sarà una Champions strana – dice Ravanelli – ma la mia idea è che se la Juve eliminerà il Lione, e non sarà facile, vincerà sicuramente la coppa”.
L'Avvocato Agnelli e un giovane Andrea Agnelli allo Stadio Olimpico, il 22 maggio 1996
Non resta che aspettare, per vedere se la profezia si avvererà. Intanto Penna Bianca, dopo una breve carriera da allenatore, studia da direttore sportivo. E potrebbe esserci ancora il bianconero nel suo destino: quello dell’Ascoli. “Aspettiamo e vediamo. Conosco il presidente e so che è una persona seria, ma per il momento non ci sono stati contatti”. Un altro anticipo scaltro, questa volta non ai danni due olandesi. “Come mi vedo da DS? Dopo 30 anni di calcio, vissuto anche all’estero, credo di avere accumulato una grande esperienza. Perché no, quindi?”. Lo ripete ancora, proprio come quella sera del 22 maggio prima di beffare van der Sar e de Boer. Chiude gli occhi, non serve vedere. “Perché no?”. Non si può dire che non avesse ragione.