La cosa bella è che ‘Ada’ finisce allenamento e continua a correre dietro a un pallone, anche oggi, a 41 anni. “E ci credo! Torno a casa e sento ‘papà…. giochiamo?!”. E via. “Quello di cinque è bello vispo, l’altro di due e mezzo insegue”. Ma impara già, anche se per la tattica è ancora presto. Adailton se la ride, la sua testa meno, perché pensa già ai prossimi impegni: allenamento, allenamento, partita. "Un allenatore non stacca mai!”. La nuova vita di Adaílton Martins Bolzan è sempre in campo, sempre con una palla rotonda in mezzo che rotola, ma la prospettiva corretta è quella dalla panchina. “Adesso faccio il vice allenatore alla Virtusvecomp, in Serie D. Per adesso stiamo andando bene ma bisogna continuare così”. Mentalità martello. Con un approccio da… papà. “Un giocatore è come un figlio per me”. L’indizio che fa la prova schiacciante sta nell’uso della voce. ‘Ada’ ha le idee chiare sul tipo di gestione che vuole portare avanti: "Il passaggio più difficile è capire che non sei più un giocatore ma l’allenatore. Cambiano tantissime cose: l’approccio psicologico con il gruppo, il come comunicare certi messaggi. Cambia il tono della voce, perché il tono ti dà autorità. Io sono uno di quelli che accetta il confronto e lascia margine di dialogo ma sulle decisioni non transige: le prende chi allena. Il riuscire a trasmettere il proprio pensiero è la parte più importante e più difficile allo stesso tempo. Urlare? No. Preferisco parlare il tono fermo e sicuro. In alcuni casi deciso. Ma senza urla. Timore no, rispetto si, sempre. Il giocatore deve capire che fare due metri in più o due in meno è tutto per la squadra. E’ come gestire un… figlio!”. Per l’appunto.
Da giocatore era una delizia. Punizioni infallibili ‘alla Zico’. “M’ispiravo a lui! Sono cresciuto studiando ogni minimo dettaglio del suo modo di calciare” anche se “la sua maglietta non me la sono mai comprata, mai! Io tifavo Internacional de Porto Alegre, non Flamengo”. E gol anche a Gigi Buffon. “Si ma solo in allenamento!”. Chiaro, i due hanno condiviso lo spogliatoio per una stagione. “Era il Parma dei campioni quello. Campioni veri, assoluti. E la cosa bella era che, nonostante io fossi al mio primo anno in Italia, al mio primo anno al Parma e avessi appena 20 anni, mi sento uno di loro, mi sentivo considerato. Ho capito perché i vari Thuram, Cannavaro, Buffon sono arrivati così in alto: non mollavano un centimetro. A fine allenamento continuavano a fare lanci, provare, testare. Mi dicevo ‘se loro sono ancora in campo, io non posso andare a casa!’. Ho capito che il vero campione vuole crescere collettivamente ma punta a migliorarsi anche individualmente, allenandosi anche 10 minuti in più”. Tornando a Buffon. “Aveva 19 anni ma era già fenomenale. Eravamo insieme quando ricevette la prima convocazione per la Nazionale maggiore. Sai che mi disse? ‘Mamma mia, in Russia ci sarà un freddo boia’. Perché pensava di fare il secondo per 90 minuti e poi… è diventato un mito del calcio”.
Al Parma è stato allenato da un certo Carlo Ancelotti, che lo preferì a Roby Baggio. Adailton ci chiarisce: “Non per le qualità tecniche ma perché sarei stato più facile da gestire. Aveva Chiesa e Crespo, giocava con il 4-4-2. Con un Baggio in più poteva avere alcune difficoltà nella gestione del gruppo. Io ero giovane, avevo 20 anni e avrei accettato con più serenità la panchina". A Verona - il suo grande amore, città dov’è tornato a vivere con tutta la famiglia - ha imparato molto da Prandelli e Malesani. “Il primo, con i giovani, era fenomenale. Da Cesare ho capito l’importanza dei movimenti senza palla. Malesani puntava tutto sul bel calcio”. Chi, però, gli ha fatto scoccare la scintilla per diventare allenatore è stato Gasperini, ai tempi del Genoa. “Un giorno mi disse ‘sei uno dei calciatori tatticamente più intelligenti che abbia mai allenato’ e credimi è stato un onore. Ricordo quanto si arrabbiava con chi perdeva tempo a giocare alla playstation oppure al fantacalcio! Spero di andarlo a trovare presto e vedere i suoi allenamenti. Mi ha dato convinzione e la forza di puntare sulla carriera da allenatore”.
‘Ada’ è un uomo gentile, sorridente, che non lascia nulla al caso, nemmeno i sorrisi. Da giocatore ha toccato con mano l’ambiente della Selecao, in un Mondiale U-20, e ha conosciuto realtà di livello mondiale, come il PSG. “Lì ho capito che il calciatore è anche un personaggio. Che deve dare l’esempio, che deve pensare al campo ma anche a mille altre cose extra”. Ed è stato vicinissimo alla Roma. “Nell’anno in cui il Verona è retrocesso. Sarei dovuto rientrare nell’operazione Nakata, col Parma. Ma quella Roma aveva campioni assoluti come Totti, Batistuta, Montella, Delvecchio e io volevo giocare, ero giovane. Avrei vinto uno scudetto!”. Ma ha preferito l’amore di Verona dove tutt’oggi è amatissimo. Scaramantico, poco. Molto religioso. ‘Ada’ ci spiega: “Siamo di passaggio. Penso che ci sia qualcuno di grande lassù, più grande di tutti noi, ma bisogna lasciare un segno in questa vita, un segno anche nelle persone, in positivo". E lui lo vuole fare, oggi da allenatore, ambizioso e innamorato del pallone qual è. Perché alla fine papà gioca sempre, anche dopo allenamento.