Accendono la luce e poi spariscono. Questa è l’essenza dei veri talenti. Risolvere i novanta minuti di una partita in una manciata di secondi, in un quadrato del campo e in pochi passi. Perché è sufficiente una giocata per superare l’avversario. In Europa, come in Sudamerica. A Palermo, Parigi e Roma, come a Buenos Aires e Cordoba, dove è nato Javier Pastore.
In uno stadio, come in un potrero, quei campi di sabbia arida che si incontrano senza difficoltà in Argentina. Lì, in quei pezzi di terra senza linee e con le porte arrangiate sono cresciuti i più grandi talenti argentini degli ultimi anni. Sono quelle partite che tutti vogliono giocare provando ad emulare i movimenti di Riquelme o di Kaka. L’idolo di Javier e anche il giocatore che per movenze più lo ricorda.
Solo che in Argentina vige un’unica legge inviolabile: chi vince continua a giocare, chi perde torna domani. È per questo che molti talenti argentini vengono definiti incostanti. Plasmati nel DNA calcistico dalla legge del potrero. Un vizio, che da piccoli ha permesso loro di rimanere imbattuti dalla mattina alla sera. Da grandi invece un limite, che a intermittenza ne ha ostacolato la crescita. La luce si accende ed è magia.
Così il primo Pastore arrivato in Italia fece piangere il burbero Zamparini. Stop, tunnel e assist per il compagno. Sipario dopo cinque minuti. In Sicilia Pastore si accende. Sul campo indimenticabile la tripletta segnata nel derby contro il Catania, fuori la serenità famigliare. Semplice come in campo, conquistando la sua futura moglie con un gelato.
Bastano pochi secondi per capire che la stoffa è quella del campione. Le carezze date al pallone, le traiettorie dei passaggi dove nessuno ha mai visto lo spazio. Innamorarsi di Pastore è facile.
Ci è cascato Cantona dicendo: “Amo Pastore. E' un giocatore che ogni volta che tocca palla ti sorprende”. E poi anche Maradona, suo allenatore nell’Argentina ai Mondiali del 2010: "È un maleducato del calcio. Tocca la palla come se avesse giocato 4-5 Mondiali”.
Poi però la luce a volte si spegne quasi per prendere fiato. Dopo la prima stagione a Parigi con tredici gol, mai più in doppia cifra. Forse la presenza ingombrante di Ibrahimovic o le luci della Tour Eiffel troppo luminose per far risaltare anche le sue giocate. Un corpo magro, el flaco, che spesso si è dovuto fermare per gli infortuni. Il suo apporto alla causa del PSG però c’è sempre stato: ha partecipato a 107 goal della squadra parigina (45 gol e 62 assist) in 269 partite giocate.
A Di Francesco il compito di riaccendere la luce. Nelle quattordici partite che ha giocato quest’anno Emery lo ha usato da attaccante esterno (6 volte), due da trequartista e 6 nel centrocampo del 433. Non sarà il sostituto di Nainggolan per fisicità, colpi e temperamento. Sarà bellezza sfuggente.