Quando dici Perù, pensi subito a lui. Per tutti è il “depredador”. Professione attaccante, capitano di una nazionale che si prepara alla sua sfida più grande, icona di una nazione che aspetta la finale di Copa America contro il Brasile col fiato sospeso. E nella notte del Maracanà - fischio d’inizio alle 22 italiane – anche noi dovremmo tifare per lui.
Perché Paolo Guerrero è italiano.
“Proprio così, esattamente dall’aprile 2018”, racconta l’avvocato Francesco Rizzato, in esclusiva per gianlucadimarzio.com.
Una sentenza del Tribunale di Roma è lì a testimoniarlo: dal 6 aprile dello scorso anno, il signor Jose Paolo Guerrero Gonzales, nato a Lima il primo gennaio del 1984, è cittadino italiano.
“Paolo e anche suo padre Jose, l’uomo che gli ha messo peraltro un nome italiano”, aggiunge l’avvocato.
Già, Paolo. Mica Paulo. Un nome scelto durante i mondiali del 1982: sul divano il signor Jose segue le gesta del suo Perù e s’innamora di Paolo Rossi. Che poi noi chiameremo Pablito, spagnoleggiando un nome che a Lima il signor Guerrero Capurro – attenzione a questo secondo cognome - lascerà nella versione italiana. “Mio figlio si chiamerà Paolo”, afferma Josè, mentre guarda Rossi trafiggere Brasile, Polonia e Germania. La signora Petronila non oppone resistenza: si chiamerà Paolo, ok. Ma perché oggi è cittadino italiano?
Nonna Marcela e il signor Capurro. Una storia partita da Genova
“Nel 2015, quando Guerrero stava lasciando il Corinthians, alcuni club italiani si erano interessati a lui. Si parlava di Lazio e Bologna soprattutto. Ovviamente uno status di comunitario avrebbe aiutato il trasferimento”. A Paolo si accende una lampadina: i racconti di nonna Marcela e delle sue origini italiane. “Sua nonna gli aveva raccontato di avere una discendenza italiana. Andando a cercare attraverso ambasciate, consolati e registri comunali, abbiamo scoperto che nonna Marcela aveva detto la verità: il signor Giuseppe Capurro, nonno della signora Marcela, era un genovese emigrato in Perù intorno al 1850”.
Trovato l’antenato, cittadinanza acquisita? Niente affatto. Secondo una prima interpretazione delle leggi sulla cittadinanza, si poteva diventare italiani solo se la discendenza avveniva per via paterna. “Una norma dichiarata incostituzionale da varie sentenze della Corte, che ha aperto alla trasmissione dell’italianità per via materna”. Ma attenzione: il signor Josè Guerrero era nato prima del ’48. Ossia prima della nascita della nostra Costituzione. E allora? “Abbiamo dovuto cambiare percorso. Abbandonato l’iter amministrativo, siamo andati in giudizio civile. Ci sono voluti tre anni, ma oggi i Guerrero sono cittadini italiani”.
Paolo, il Perù e una maglia biancorossa come tatuaggio
Sul fianco sinistro, el Depredador ha uno dei suoi innumerevoli tatuaggi. C’è scritto “Te amo Perù”. Sentimento incontrastabile e ricambiato da una nazione alla quale ha regalato 91 presenze e 36 gol, di cui 13 in Copa America. Nessuno come lui.
“E pensare che, paradossalmente, dopo quella sentenza del Tribunale di Roma forse avrebbe potuto vestire la maglia azzurra”, racconta l’avvocato Rizzato. “Sarebbe stato difficile perché aveva già indossato la maglia del Perù, ma il fatto che fosse venuto a conoscenza di un suo diritto solo dopo avere vestito la celebre bicolòr, avrebbe aperto spiragli giuridici. Del resto già in passato ci sono stati casi come quello di Diego Costa o Thiago Motta. Non sono esattamente paragonabili a quello di Guerrero, ma a loro modo dimostrano come giocatori con doppia cittadinanza possano cambiare maglia anche a livello di nazionalità”.
Di sicuro Paolo, o Paòlo come lo chiamano a Lima, avrebbe chiuso subito ogni spiraglio. Quella maglia blanquirroja è uno dei suoi tatuaggi, anche se non è marchiato con l’inchiostro. La sua carriera ha la parabola inversa rispetto a Messi: leggendario in nazionale, altalenante con i club. Ha riportato il Perù ai mondiali in Russia, rischiando di non giocarli per una squalifica per doping poi congelata.
La sfida col Brasile e il sogno di un Maracanazo. Come un altro "italiano"
Sarebbe stato un dolore troppo grande per lui e per papà Josè, che lo aveva concepito mentalmente guardando i mondiali dell’82. Gli ultimi giocati da una nazionale che ora ha un appuntamento con la storia. Al Maracanà, dove nel 1950 l’Uruguay fece lo scherzo del secolo al Brasile, soffiando ai padroni di casa il titolo mondiale.
Da quel giorno aleggia il fantasma del Maracanazo. Sono passati 69 anni. Il gol decisivo lo segnò Alcides Ghiggia, un’ala destra che nel ‘57 fu naturalizzato italiano. Corsi e ricorsi.
Spulciando gli archivi, si scopre che un signor Giuseppe Capurro aveva una fabbrica di dolciumi. Quando arrivò al Bayern Monaco, Gerd Müller regalava un cioccolatino a Paolo Guerrero per ogni gol segnato.
A Lima sognano che questa volta possa pioverne uno dal cielo. Firmato Giuseppe Capurro, trisavolo italiano del Depredador.