Palanca, il re di Catanzaro che segnava dai corner: “Era come tirare una punizione”
IL RE DEL VENTO, L’UOMO CHE SEGNAVA DALLA BANDIERINA
A San Siro avrebbe fatto tanto comodo. Sui corner, quando il traguardo sembrava più vicino e la gente urlava più forte. Serviva una traiettoria magica. Una di quelle che Massimo Palanca sapeva disegnare nei cieli del calcio. Perché dalla bandierina, “il re del vento” – come lo chiamavano a Catanzaro – faceva segnare e soprattutto segnava: 13 gol, come lui nessuno mai.
“Il calcio d’angolo è come la punizione dal limite dell’area. Non cambia niente, devi beccare la porta”, racconta a gianlucadimarzio.com l’uomo che, sul finire degli anni ’70, portò i calabresi a un passo dall’Europa. “Oggi li tirano al contrario, col piede invertito, a uscire. Occasioni sprecate. Io chiedevo ai miei portieri cosa li metteva più in difficoltà. E dicevano sempre la stessa cosa: le traiettorie a rientrare”. Prodezze passate alla storia, talento e lavoro: “Mi allenavo tanto, calcolando anche il vento. A Catanzaro a volte soffiava così forte che la palla scappava. A San Siro di sicuro non avevano questo problema. Dalla bandierina si vincono le partite, col piede giusto”.
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Ne sarebbe bastato forse uno piccolo, come il suo sinistro fatato: un 37 da cui piovevano gol olimpici. “Ma i problemi del nostro calcio non si sarebbero risolti con un calcio d’angolo. L’eliminazione dal mondiale è l’apice, ma noi dobbiamo guardare alla base. Fosse la volta buona che si azzera tutto il sistema. In serie A importiamo troppi stranieri che non arricchiscono il nostro calcio, ma il problema vero è prima. Oggi giri per strada e non vedi giocare i ragazzini. Sono tutti concentrati su telefoni e computer, non possiamo sperare di crescere talenti così”. Distrazioni che un ragazzo del ’53 come Palanca, cresciuto nelle Marche tra figurine e palloni, non aveva: “Io ero figlio del custode dello stadio di Porto Recanati, da bambino avevo sempre il pallone tra i piedi. È da lì che bisogna ricominciare, dalle scuole calcio, mica dalle squadre Primavera. Lì è già tardi. C’è troppa approssimazione. Lo vedo lavorando nelle rappresentative regionali, con i giovanissimi. Un caos totale”.
Palanca fa una pausa, poi riattacca: “Serve programmazione. I club non possono lamentarsi sempre per gli impegni della nazionale e non possiamo tenere ancora gente di 80 anni dentro alla federazione. Gente che non ha mai dato un calcio al pallone. Serve un colpo di spugna, magari dando spazio a ex giocatori che sappiano cosa voglia dire indossare quella maglia”.
Una casacca che ha vestito solo una volta nel ’79. “Ma all’epoca c’erano giocatori più forti di me, non ho rimpianti. E il Catanzaro era troppo piccolo per ambire alla nazionale”.
IL CATANZARO, IL PRIMO VIAGGIO, L’INIZIO DI TUTTO
Ma quella divisa è stata la sua vita. Undici anni con la maglia giallorossa. La prima volta dal ’74 all’81. “Giocavo nel Frosinone, dovevo andare alla Reggina, poi mi dissero che sarei andato al Catanzaro. Guardai la cartina per capire come arrivarci. Alle visite mediche andai in treno. Un viaggio notturno, infernale. Tutti stipati come sardine. Dopo qualche ora, riuscii a posare la valigia e raggomitolarmi per dormire un pochino”. Inizio di una favola: 145 gol segnati in giallorosso, dalla C alla A. Simbiosi totale con un popolo di cui è stato bandiera e miglior marcatore nel massimo campionato: 35 reti indimenticabili, 3 all’Olimpico contro la Roma in una vittoria storica nel ’79. “Fui contento per il nostro allenatore, Carlo Mazzone. Ci teneva tantissimo. La sua mezza espressione soddisfatta alla fine, chi se la dimentica…”.
IL DERBY CON IL COSENZA, IL RITORNO IN CALABRIA, IL RITIRO
Nessuno a Catanzaro dimentica Palanca, ancor di più questa settimana. Quella del derby contro il Cosenza. In serie C, lontano dai grandi palcoscenici ma non dal cuore del numero 11 più importante di sempre della città del vento. “Li seguo sempre, certo. La squadra non ha grande qualità, c’è una società nuova. Speriamo che questa gara faccia da trampolino e fughi le incertezze iniziali”. Cosenza e Catanzaro sono a 15 punti, medio-bassa classifica. Poche velleità di grandezza, uno sguardo attento alle spalle e uno timido più in alto. Un derby di serie C, come quello che ricorda con più piacere. Era il 1986, l’anno del suo ritorno in Calabria, dopo la brutta esperienza a Napoli e le due stagioni in chiaroscuro fra Como e Foligno. “Ero tornato da poche settimane. Si giocava in casa loro. Andai in panchina perché mi faceva male un piede. Il pubblico iniziò a insultarmi senza motivo. Non avevo mai avuto problemi a Cosenza, rimasi meravigliato. L’allenatore Tobia mi disse di scaldarmi. Eravamo sull’1-1. Gli insulti aumentarono, entrai in campo carichissimo. E poi…”. E poi fu storia: doppietta in tre minuti. Vittoria, altra pagina di gloria. “Vincemmo il campionato e l’anno dopo rischiammo di fare il doppio salto. Ci mancò un pelo”. Sogni infranti per un punto, perso soprattutto in una partita che dice tutto sul rapporto tra Palanca e la sua gente. Rigore al 90’ con la Triestina. Va lui sul dischetto. In porta c’è un giocatore di movimento. Il portiere era stato appena espulso. Il sinistro di Palanca si stampa sul palo. Triplice fischio, lacrime del numero 11, applauso scrosciante dagli spalti. “Nessuno è uscito dallo stadio, restavano lì ad applaudirmi. Io piangevo e loro battevano le mani più forte. Questi momenti te li regala solo lo sport. Li ho rivissuti guardando Buffon lunedì sera”.
Smise nel ’90, sperando di restare in società, “come d’accordo col presidente Albano. Ma ero una presenza ingombrante. Potevo fare ombra a qualcuno”. E la sua Calabria finì lì.
I GIORNI NOSTRI, IL TERREMOTO, I VECCHI COMPAGNI
Oggi Palanca vive a Camerino, dove gestiva un negozio d’abbigliamento prima del terremoto di un anno fa. Un’attività che ha dovuto trasferire dieci chilometri più in là, a Castel Raimondo, “in un negozio molto più piccolo, con un mercato molto più stretto. Camerino è un disastro, il centro storico è ancora zona rossa, c’è gente che si suicida. A livello politico c’è un continuo rimpallo di responsabilità. È dura andare avanti”.
Andare via, anche per brevi periodi, cura le ferite. E c’è sempre, in qualche modo, il Catanzaro nelle sue fughe. “Passiamo il Capodanno con i compagni degli anni d’oro e le mogli, che organizzano tutto. Spesso raggiungiamo Ranieri, che è il più impegnato. Siamo in 8-9, quasi una formazione da schierare. E infatti ci portiamo anche l’allenatore. Gianni Di Marzio, sì, certo…”.
Oggi ci sarà il Catanzaro nei suoi pensieri. E viceversa. Perché un popolo non dimentica la sua bandiera. Quella che faceva piovere partendo dalla bandierina.
Claudio Giambene