È possibile non giocare a calcio per motivazioni politiche? Eccome. La vicenda di Mkhitaryan è solo l’ultima di una serie di casi di questo tipo: l’Arsenal si è infatti trovato costretto a lasciare a casa uno dei suoi giocatori più rappresentativi, per una questione che esula da questioni tecniche, tattiche o di calciomercato. Lui, armeno e capitano della sua Nazionale, non è stato convocato per la trasferta di Europa League in Azerbaijan, dove si troveranno di fronte il Qarabag. Gli azeri sono da anni in guerra contro l’Armenia per il controllo di una piccolissima porzione di territorio, il Nagorno-Karabakh. In due anni, dal 1992 al 1994, quella linea di terra è diventata teatro di guerra, con 30mila morti e oltre 80mila feriti: a nulla è servito l’armistizio firmato proprio nel ‘94, dal momento che le azioni di guerriglia sono continuate fino a oggi, di fatto senza tregua. Così, è arrivata la scelta di non convocare Mkhitaryan per questioni di sicurezza, e la reazione dell’allenatore del Qarabag, Gurbanov, è stata molto dura: “Molti sportivi armeni sono venuti qui: non convocarlo è una scelta dell’Arsenal, forse temono possa subire troppa pressione da parte dei nostri tifosi, ma allo stadio...”.
Da una non
convocazione all’altra. Simile a quello del centrocampista dei
Gunners è il caso di Alireza Jahanbakhsh, ora in forza al Brighton,
qualche anno fa dell’AZ Alkmaar. Era il 19 ottobre 2016, e
l’allenatore degli olandesi, van den Brom, decise di non convocare
l’iraniano, allora ventitreenne. Perché? Sempre in Europa League
la sua squadra avrebbe giocato contro gli israeliani del Maccabi Tel
Aviv. E non era cosa ignota che esistesse (e tutt’ora esiste) un
aspro conflitto tra Iran e Israele. A differenza di Mkhitaryan, però,
la scelta di non scendere in campo per la partita che si sarebbe
giocata in Olanda fu direttamente di Jahanbakhsh: giocare contro una
squadra israeliana avrebbe significato per lui, iraniano, riconoscere
Israele come una nazione.
Il senso di
appartenenza verso le proprie origini sembra collegare tutte queste
storie, anche quando si tratta di giocatori non più in attività. È
singolare la vicenda di Hakan Sukur, vecchia ma tutt’altro che
ignota conoscenza del calcio italiano. L’attaccante, che ha
militato tra le file di Torino, Inter e Parma, ha concluso la sua
carriera in Turchia, nel Galatasaray. Un ritorno in patria, per il
classe ‘79, che terminata la sua carriera da calciatore si è
buttato in politica, nello schieramento di Erdogan. Con l’attuale
leader anatolico, inizialmente i rapporti furono ottimi: la
popolarità di Sukur gli permise di ottenere in breve tempo un posto
in parlamento, ma lo strappo si consumò quando Fethullah Gulen,
famoso predicatore turco, venne dichiarato nemico di Stato. Sukur,
seguace di Gulen, si schierò contro il provvedimento, e dopo beni
sequestrati, conti congelati, e addirittura l’incarcerazione per un
anno del padre, si ritrovò costretto a fuggire dalla Turchia nel
2015, per trasferirsi in California, a Palo Alto, dove è ora
proprietario di una famosa caffetteria. Su di lui pende ancora un
mandato di cattura, è un rifugiato politico americano ma, almeno,
“ho conservato la mia dignità”, ha dichiarato al New York Times.
E sempre in Turchia
non sta vivendo vita facile Deniz Naki, tedesco di nascita ma curdo
di origini. È cresciuto nel Bayer Leverkusen, ma l’attaccamento
familiare alla sua terra lo ha portato dopo qualche anno di attività
a trasferirsi in Anatolia. Anche lui è inviso a Erdogan, che qualche
anno fa lo fece condannare per 10 mesi a causa delle aperte critiche
contro il leader politico e delle sue parole di difesa nei confronti
del partito comunista curdo. Nel 2014 decise di lasciare il
Genclerbirligi, squadra di Ankara, dopo un’aggressione subita per
le vie della città e da tre anni ha scelto di giocare in terza
categoria, nell’Amed S.K., squadra curda di cui è diventato in
brevissimo tempo una bandiera. Nel gennaio 2018, Naki è rimasto
vittima di un attentato da cui è uscito illeso: diversi colpi di
pistola sono stati sparati sulla sua macchina, con lui alla guida.
L’attaccante ventinovenne è stato molto fortunato: non a tutti è
capitato così.
La storia di Lutz
Eigendorf è terribile. È il racconto di un ragazzo, prima ancora
che un calciatore, che a 27 anni ha cercato di guardare al di là del
muro. Un atto di libertà, se si pensa che il “muro” era in
realtà il Muro, quello di Berlino, in pieno periodo di Guerra
Fredda. Il centrocampista era nato nel 1956 nella Germania dell’Est
(aveva giocato anche nella sua Nazionale), e come tanti suoi coetanei
sognava un’Europa non divisa, lontana dal regime di restrizioni che
l’URSS aveva imposto nei territori sotto la propria influenza.
Tentò la fuga, per un futuro anche extra calcistico migliore: ma i
suoi sogni furono stroncati per diretta opera della STASI, che lo
uccise durante il suo tentativo. Nemmeno il calcio e la sua
popolarità poterono salvarlo.