Può una delle storie più trascinanti che il calcio abbia scritto avere un inizio triste ed un finale, se possibile, ancora peggiore? Se il protagonista del racconto è Lionel Andrés Messi Cuccittini la risposta è sì. Con la notizia del suo addio al Barcellona, infatti, la storia con il club della sua vita rimarrà un’istantanea gloriosa, fatta di un profondo e corrisposto amore per il calcio, ma incorniciata da tormenti, sofferenze e lacrime. E, soprattutto, senza il lieto fine che si sarebbe meritata.
Il primo contratto su un tovagliolino
Per Rosario, nel 2000, si era diffusa una domanda, ripetuta in tante salse ma sempre con lo stesso significato: “Che fine ha fatto Lio?”. Se la facevano un po’ tutti quelli che lo conoscevano, ma soprattutto se la facevano nelle giovanili del Newell’s, perché, sebbene avesse solo 13 anni, Lio le vinceva le partite già da solo, anche lì. La risposta, come la domanda, assumeva forme diverse, ma la sostanza era più o meno che il ragazzino si fosse ammalato. Passò una settimana, ne passò un’altra e Lio non tornava.
Qualche tempo prima, la famiglia Messi aveva avuto una delle più brillanti idee di marketing mai messe in pratica nel mondo del calcio: comprarono una cassa d’arance e la diedero al figlio. “Allenati, prova a palleggiare”. Qualche giorno dopo, girarono un video, in cui il piccolo Lionel superò abbondantemente il centinaio di palleggi consecutivi. Il caso volle che quel VHS, insieme a dei lusinghieri ritagli di giornale, finirono in mano a dei dirigenti del Barcellona, che rimasero folgorati dalle sue abilità. Ecco che fine aveva fatto Lio: era salito sul primo volo della sua vita, quello che l’avrebbe portato in Spagna per fare le prove con i blaugrana. Era molto inusuale che un ragazzino così piccolo venisse portato da così lontano anche solo per fare qualche allenamento con il club, ma il Barça in lui aveva visto prima quello che tutti gli altri avrebbero notato molto presto.
Proprio perché al Barcellona questi affari non erano la norma, la trattativa divenne complessa ed estenuante. I Messi tornarono a Rosario sapendo che la scintilla fosse scattata, ma non avendo in mano nessun contratto. Nel mentre, i mesi passavano, la famiglia si spazientiva per la mancanza di risposte e Minguella, l’agente che lo aveva suggerito al Barça, organizzò una partita a tennis con il direttore sportivo, Rexach: un pretesto per dirgli che il tempo stringeva e che c’era bisogno di una mossa concreta per non farselo scappare. Rexach chiamò il cameriere, si fece portare un tovagliolino e lì scrisse che si sarebbe impegnato ad esaudire le richieste della famiglia, fra le quali c’era la cura ormonale di cui Lionel aveva bisogno per assicurarsi un futuro da professionista. Quel “pre-contratto” che diede inizio alla storia di Messi con il Barcellona oggi è chiuso nella cassaforte di una banca di Andorra, come reperto storico del calcio mondiale.
Gli inizi, le difficoltà, i pianti
Fu l’inizio di una storia gloriosa, ma non di una favola. Perché se è facile pensare che le settimane passate a Rosario nell’attesa di una chiamata fossero state un tormento per i Messi, non tutti ricordano che il ritorno di Lionel e famiglia a Barcellona non rappresentò alcuna liberazione, ma un incubo.
Lionel Messi divenne, di colpo e a soli 13 anni, la colonna portate di una famiglia che l’aveva seguito fino all’altro capo del mondo perché, da grande, sarebbe dovuto diventare un fuoriclasse. E come se non bastasse questo già enorme carico di pressione, l’argentino si trovò a sostenerlo in un mondo che non era il suo, la cui cultura non gli apparteneva e dove faticava anche legare con i suoi coetanei, che parlavano l’incomprensibile catalano e non avevano orecchio per il suo accento.
L’introverso Messi, insomma, divenne un emarginato, lontano dalle radici a cui era tanto legato. E la situazione non potè che peggiorare quanto la madre e i fratelli tornarono in Argentina e lasciarono soli lui e il padre, Jorge, nel loro appartamento a una trentina di metri dal Camp Nou. Lì dove Messi creò la sua stanza dei pianti, i cui muri per anni furono testimoni della sua malinconia, frenata solo per quelle poche ore al giorno in cui riusciva a tenersi occupato con l’unico appiglio che gli era rimasto: il calcio. E l’asado della domenica, che per brevi momenti, fra odori e sapori, lo faceva sentire di nuovo a casa.
Quando Lio diventò Messi
“Ma chi, lui?!”, fu, più o meno, la reazione di Frank Rijkaard quando dalle giovanili gli consigliarono di portare quello che all’apparenza era un bambino, nonostante i 16 anni, a giocare un’amichevole precampionato con il Porto. L’allora allenatore del Barça si dovette fidare dei pareri più informati, visto che in tanti della rosa erano impegnati con le nazionali.
Messi, per la prima volta aggregato al gruppo dei grandi, giocò un quarto d’ora e, si dice, fu uno dei migliori in campo. Ma se le narrazioni sulle “prime volte” possono venire un po’ gonfiate per creare un’aurea fiabesca attorno a un personaggio, non fu questo il caso della sua prima volta in gol una gara ufficiale, arrivata nel 2005. 17 anni, Messi entrò in campo dalla panchina, Ronaldinho lo mise davanti la porta con un cucchiaio, e con un altro pallonetto l’argentino scavalcò il portiere dell’Albacete e segnò. Fuorigioco. “Rifacciamolo”, gli dice Dinho.
Fotocopia esatta: cucchiaio, cucchiaio, gol. Ma la bandierina rimane giù. Messi corre verso l’angolo, Ronaldinho lo prende sulle spalle e lo sfoggia come un trofeo davanti a un Camp Nou senza posti liberi. È lo scatto probabilmente più iconico della storia recente del Barça, istantanea inequivocabile del passaggio di consegne che renderà il Barcellona uno dei club più vincenti di questo secolo. Il nuovo 10, simbolicamente, era già lui, nonostante sulle spalle avesse vestisse ancora il 30.
L’argentino si fa largo nella prima squadre e, nel 2006, fu lo stesso Barcellona di Rijkaard a sollevare la Champions. Era la prima della pulce. Messi fu molto importante nel percorso alla vittoria, ma se cercate sue foto durante i festeggiamenti non le troverete: era nello spogliatoio, in lacrime perché non aveva preso parte alla finale. Un’altra stanza del pianto, anche nel giorno più fortunato della sua breve carriera.
Il campione umano
Dalle lacrime dopo una Champions vinta, a quelle versate la scorsa estate per aver comunicato al Barcellona che se ne sarebbe andato, plausibilmente ripetute adesso che le minacce del burofax sono diventate indigesta realtà. Eccolo il limite di Messi, dall’adolescenza all’età adulta: ha semplicemente bisogno di essere felice. Un limite splendidamente umano, che dona dei tratti terreni a chi, lungo la sua carriera, non ha fatto altro che mostrarci qualità divine. Riflessi, sensibilità, visione, astuzia e quell’intelligenza cinestetica e spaziale comune solo all’elitario circolo dei migliori sportivi della storia: anche gli dei hanno bisogno di essere felici.
La storia che va dall’esordio da ragazzino all’addio da uomo è quasi superfluo raccontarla. In 21 anni Messi ha cambiato il Barcellona. Dopo stagioni buie, ha riscritto la sua storia come solo ai vincitori è concesso. E Messi lo è. Con l’unica squadra della sua vita fino ad ora, di trofei ne ha alzati 35, l’ultimo dei quali – la Copa del Rey – nella stagione appena conclusa, nonostante su lui e sul Barcellona in molti avessero espresso parole da necrologio sportivo.
Fra i trofei ci sono anche quattro Champions, tre mondiali per club, 10 Liga. Quasi 800 gol in competizioni ufficiali. Ma per quanto i numeri possano aiutarci a dargli una dimensione, a paragonarlo con altri eletti, Messi è diventato soprattutto chi più di tutti nella sua epoca ha ridato vita all’amore per il calcio in ogni sua giocata; che più ci ha fatto scattare in piedi di botto, chiedendoci se fosse davvero accaduta quella cosa assurda a cui avevamo appena assistito. È stato il sole attorno a cui ha girato una delle squadre migliori della storia del gioco, guidato da quel Guardiola che meglio di tutti capì che la sua felicità era anche quella del Barcellona. È diventato più importante del club che è més que un club.
Lionel Messi a Barcellona è stato il calcio, tutti i giorni, in tutti i modi. Da prima punta, da esterno, da trequartista, da falso nove; nei clásicos, nelle finali, contro le neopromosse, negli allenamenti. E continuerà ad esserlo, tutti i giorni, dovunque andrà, per quanto sia crudele pensare che dopo 21 anni lo farà con altri colori. Che lo farà controvoglia, nonostante gli ultimi burrascosi anni di relazione. Che, da padre e uomo di successo che aveva imparato a convivere con i suoi demoni, abbia trovato una nuova stanza dei pianti anche nella futuristica villa di Castelldefels, perché a Barcellona sarà pure arrivato da alieno, ma oggi se ne va da re.
È difficile raccontarsi che una bella storia rimanga tale anche con un finale triste, indigesto, come quello della relazione fra Messi e il Barcellona. In un mondo un po’ più romantico, magari, Messi avrebbe concluso la sua carriera nello stesso Camp Nou pieno che l’aveva vista nascere. Ma, pensandoci bene, l’epilogo più corretto è che un pezzo di mondo in più da oggi possa godere delle sue gesta. Perché Messi è stato il calcio, e continuerà ad esserlo a prescindere dai colori. Giocando come un dio, ma soffrendo come un uomo. Anche per questo è unico.