Lo guardi arrivare verso
di te, senza fretta. Un saluto accennato da lontano, poi a voce. Una stretta di
mano. “Mi cambio e arrivo”. Parola rispettata. Al primo impatto la
sensazione è che il tempo si sia fermato. Che sia impossibile siano già
trascorsi 8 (!) anni da quel suo gol. È davanti a te ma la mente ritorna al suo
esordio. A quell’esultanza sfrenata. L’orgoglio di ogni italiano che quel
giorno conobbe per la prima volta Federico Macheda. Condannandolo forse
per sempre all’immagine di diciottenne capace di far inchinare ai propri
piedi Old Trafford intero.
Invece Federico è
cresciuto, maturato. È diventato anche papà di Lorenzo. E giura a chi gli ha
cucito addosso l’icona di ragazzo spavaldo e sfrontato di essersi sbagliato di
grosso. “Premetto che ringrazierò per sempre la mia famiglia per avermi
lasciato libero di fare le mie scelte e soprattutto mio padre per tutti i suoi
sacrifici, ma non avrei mai pensato di andarmene in Inghilterra. Avevo
famiglia e amici a Roma, l’Italia era tutto per me. Poi hanno iniziato a
corteggiarmi in modo sempre più insistente. C’era un osservatore, David Williams,
che mi chiamava tutti i giorni e mi ha fatto incontrare col fratello di
Ferguson quando lo Utd venne a Roma per giocare la Champions. Ferguson
stesso gli diede una maglietta col mio nome dietro: a quel punto fu impossibile
rifiutare”. Un viaggio alle origini della favola Macheda raccontata dal
protagonista stesso in esclusiva per Gianlucadimarzio.com.
“Sono sempre stato un tipo semplice, tranquillo. Il calcio per me è divertimento fin da bambino scendevo a giocare sotto casa. Tutto cominciò quando bussò alla mia porta la Lazio. Avevo dieci anni e non mi sembrava vero di poter giocare per la mia squadra del cuore. Ero contentissimo. Figuriamoci quando lo United palesò il suo interesse”. Ricordi unici ed indelebili che riaffiorano. La timidezza che lascia spazio all’emozione. L’inizio della Macheda story. Start.
Inizialmente non fu semplice sedare la nostalgia di casa. Entrò in gioco la caparbietà, la testardaggine di voler inseguire il proprio sogno e di non deludere chi gioiva e soffriva al proprio fianco. “Il primo anno fu duro: ero l’unico italiano e non parlavo una parola d’inglese. Dovevo studiare molto, ero malinconico, non dicevo una parola ma ho stretto i denti e adesso… parlo meglio l’inglese dell’italiano”, risata inevitabile. Sciolto il ghiaccio. L’inizio della trasformazione di Federico nel ben più conosciuto ‘Kiko’. Anche grazie ad un amico speciale: Pogba. "Paul era uno dei miei migliori amici di quei tempi. Abitava davanti a casa mia a Manchester e veniva sempre da me a giocare a ping pong. Ma anche perché… mia madre gli cucinava la frittata, ne andava pazzo! – altra risata - Eravamo molto amici e già a sedici anni si vedeva che era un fenomeno, faceva la differenza anche negli allenamenti con la prima squadra. Non lo sento da circa sei mesi ma so che è contento della scelta che ha fatto: era il suo sogno tornare allo United”.
Da quel momento, la
svolta. L’ambientamento. I gol con la squadra riserve. E la storia che entra
davvero nel vivo. “Pensate che prima della settimana del debutto non mi
ero mai allenato con la prima squadra. È successo tutto così velocemente”,
incalza Kiko, sempre più coinvolgente. Nei suoi occhi la spontaneità di chi sta
rivivendo quegli attimi una seconda volta. “Ricordo che Rooney era
squalificato, Tevez di rientro dal Sudamerica e Berbatov infortunato così Ferguson
mi disse che se avessi fatto bene con la squadra riserve sarei andato in
panchina con loro. Capii che era la mia occasione. E mantenni la promessa
facendo tre gol. Quando entrai nello spogliatoio mi sembrava tutto così
immenso con quei giocatori impressionanti. C’era Ronaldo: il più forte di tutti.
Mi piacerebbe rincontrarlo, lo saluterei volentieri. Poi, Ferdinand e Vidic:
due mostri insuperabili. Ma potrei star qua ad elencarli uno ad uno. Ero il
più giovane e stavo in disparte, non parlavo mai. Eppure, hanno cercato tutti di
aiutarmi: da Ferdinand col quale ho un ottimo rapporto, a Rooney,
Valencia e Hernandez. Addirittura in poco tempo siamo diventati amici”.
Quella domenica contro
l'Aston Villa arrivò quasi senza nemmeno accorgersene. Un bambino in un negozio
di giocattoli: dev’essere stata questa la sensazione vissuta appena messo piede
all’Old Trafford da giocatore. “Ero contento solamente di stare in panchina e
sinceramente speravo che lo Utd perdesse così da entrare e realizzare il mio
sogno, invece mi buttò nella mischia a più di mezz’ora dalla fine. Ero
scosso: mi dicevo ‘Cavolo, ora devo entrare…’. Invece ho fatto il mio
ingresso alla grande, coronato col gol allo scadere”. La gioia.
L’incredulità. Attimi sospesi in aria per sempre, quasi ibernati. Stop.
Improvviso, brusco. Come la sterzata che da lì a poco toccò alla carriera di
Macheda. La mancata esplosione, i consigli di Ferguson non ascoltati, le scelte sbagliate. Gli
infortuni. Raccontati da ‘Kiko’ stesso nella seconda parte della nostra
intervista tra gioie, dolori e qualche rimpianto. Ma capaci di forgiarlo in
quanto a maturità e carattere, rendendolo il Macheda di oggi. Qua, di fronte ai
nostri occhi. E allora appuntamento a domani, da non perdere: noi, voi e ‘Kiko’
tra retroscena di mercato, obiettivi e sogni. Ed una Macheda story ancora tutta
da (ri)scoprire.