Alla fine sono abbracci, sguardi bassi e rabbia. L’occasione era grossa, la delusione ancora di più. Chissà se con lo stadio pieno (perché lo sarebbe stato, come lo era contro l’Atletico Madrid due anni fa, quando non si potevano di certo sentire le grida di Pinsoglio dalla panchina) sarebbe finita in maniera diversa. Certo è che la Juventus ha accarezzato il sogno di un’altra impresa e invece ripiomba nell’incubo. Allora era Ronaldo il protagonista, oggi è stato soprattutto Chiesa. Il leader da cui ripartire per guardare avanti.
La stagione da allenatore di Pirlo è strana, all’interno di un anno maledetto. Vive di antitesi. La sua Juve a volte convince, a volte no: decide partite difficili, si arrende quando sembrano in discesa. Contro il Porto i sorteggi sembravano essere stati generosi, ma l’incubo di Lione era ancora troppo vivo per non stare in guardia: in 210’ rieccolo. Con dubbi, incertezze e paure. A Torino l’aria trema, un po’ come quella traversa di Cuadrado nel pieno recupero che avrebbe portato la Juve ai quarti e impedito di giocare i supplementari.
Ma a Torino, l’aria è anche gelida: come quando Oliveira (quest’anno il vero protagonista della squadra di Conceicao) con una punizione fa piombare la Juve nello sconforto. 17 gol in 36 partite complessive: è il capitano che non molla mai, l’anima e il cuore di una squadra che rispecchia in pieno il carattere del suo allenatore.
Perché se in Italia si parlerà soprattutto della sconfitta della Juve, in Europa si racconterà la vittoria del Porto. Eroico, a tratti sorprendente: gioca in 10 per un’ora (espulsione di Mehdi più sciocca che mai: dà il via alla rimonta sfiorata della Juve), ma quando sembrava soccombere, si rialza di colpo. Finisce 3-2, il Porto passa. Esultano tutti, corrono, gridano: la panchina sostituisce i tifosi in trasferta, mentre in campo è pura festa. Conceicao a Torino aveva già vinto un trofeo: Supercoppa del 1998, a Torino, un suo gol al 94’, in occasione della prima partita ufficiale aveva regalato il titolo. Memorie di un’impresa, che l’allenatore ora celebra in maniera diversa.
A fine gara, tutta la squadra si posiziona al centro del campo, in cerchio. Sergio (che al fischio finale litiga con Ramsey e Morata, ma poi rientra tutto) parla al gruppo, che resta silenzioso e concentrato. Cinque minuti buoni di discorso, quindi il grido, in coro, di tutti i giocatori e staff: “Porto, Porto, Porto!”. È lo spirito di una squadra che ha saputo come reagire. Alla fine, anche qui sono abbracci, sguardi bassi e rabbia. Anzi, grinta e concentrazione. È la partita delle antitesi: la Juve dovrà ripartire anche da qui.