Gullit: “L’Italia mi ha insegnato a godermi la vita, a mangiare, vestirmi: portavo ancora i calzini bianchi…”
Il Milan stellare di Sacchi, ma non solo. Un mondo a parte l’Italia di Ruud Gullit, quella che tra fine anni ’80 e primi anni ’90 dominava la scena calcistica e primeggiava un po’ in tutti i settori. Il fuoriclasse olandese apre l’album dei ricordi per La Gazzetta dello Sport. Si parte dai racconti di campo:
“Vi racconto di Belgrado, ottavi di Coppa dei Campioni, novembre 1988. Il mio fisioterapista personale arriva con un aereo privato e mi tratta per risolvere un problema muscolare. Io provo a correre nei corridoi dell’albergo e lui dice che posso giocare, ma solo 45-50 minuti. Questo però lo sapete. In campo Donadoni prende quel colpo e gli altri pensano sia quasi morto. All’intervallo negli spogliatoi sentiamo un annuncio con l’altoparlante in slavo, poi i fischi del pubblico. Quando l’altoparlante ripete in italiano, capiamo: lo speaker ha detto che Donadoni è fuori pericolo e i tifosi hanno fischiato questo. Ci ha dato una rabbia, una carica, abbiamo vinto anche per questo. Alla fine, quando un loro dirigente è venuto sul nostro bus per scusarsi, lo abbiamo mandato via”.
Qualche aneddoto sugli allenamenti “sacchiani“: “Noi attaccavamo in 11 contro 6, con solo i quattro difensori e i due centrocampisti centrali, e non facevamo mai gol. Poi Sacchi toglieva i due centrocampisti e non segnavamo neanche 11 contro 4: quella difesa era organizzatissima, potevi solo tirare da lontano. Poi… partita a metà campo a un tocco, 11 contro 11, con il campo largo quanto l’area di rigore. Tutto strettissimo, impari a reagire in fretta. Sacchi era un allenatore unico. Quando sono andato alla Samp c’era Eriksson. Pareggiavamo 1-1 e lui: ‘Bravi ragazzi, avete fatto il massimo, la prossima volta andrà meglio’. Io sentivo e… ‘Che cosa?’. Con Sacchi, dopo un 1-1, erano discussioni per una settimana”.
Su Rijkaard e Van Basten: “Marco era un grande giocatore, egoista come deve essere una punta. Frank più riservato, ma per noi aveva anche umorismo. Il più talentuoso però era Maradona e il più matto Seba Rossi, il pescatore. Serie A di oggi? In Olanda non la trasmettono in tv, ma è strano vedere gli stadi vuoti. Un giorno ho portato mio figlio a Milan-Cesena, e lui: ‘Ma che cos’è questo?’. Non c’era nessuno. Il problema sono gli stadi vecchi, ma i risultati internazionali dimostrano che la vostra interpretazione del calcio è giusta. Juventus? Può farcela in Champions. L’ho vista già a Berlino in finale e poi non ho una favorita quest’anno. Però più di tutto è importante arrivare in forma a fine stagione”.
Consigli per gli acquisti e per il calcio del futuro: “Io ho avuto Cruijff come maestro, mentre adesso in Olanda non ci sono campioni che insegnano ai ragazzi. Poi guardate Nathan Aké. Il Chelsea lo ha mandato in altre squadre, poi a Bournemouth, ora lo ha ripreso: mi dispiace abbia fatto un giro così lungo. Però il figlio di Kluivert è bravo, ho visto che ha esordito con l’Ajax. Calcio del futuro?Con stadi moderni, soprattutto senza campi sintetici. In Olanda ce ne sono troppi e sul sintetico è un altro sport, non si possono neanche fare certi contrasti. Sono d’accordo con chi vuole giocare solo sull’erba. Razzismo? Anche a me a Napoli dicevano “negro”, ma non lo consideravo razzismo. Secondo me avevano solo paura, allora giocavo al massimo e alla fine mi applaudivano. Con i falli era lo stesso: se mi picchiavano, mi alzavo subito. Se stai giù e ti lamenti, chi ti ha picchiato pensa ‘ah ah, allora gli ho fatto male…’. Io non volevo”.
Parole al miele per l’Italia: “Scarpe, macchine, arredamento, formaggio, donne, spiagge, mare, montagne. Mi ha insegnato tutto. A godermi la vita, a mangiare, a vestirmi. Il primo anno i compagni hanno preso tutti i miei vestiti e li hanno messi su uno scheletro. Come per dire, non puoi vestirti così. Avevano ragione, usavo ancora i calzini bianchi… Ora l’Italia è il Paese del dramma. Vi chiediamo come state e voi: ‘Ah, male’. Invece avete tutto. Però siete unici. Noi olandesi per cultura non guardiamo troppo le persone famose, da noi non si fa. Un italiano invece mi guarda, mi riguarda, mi fissa. Quando pensi abbia smesso, chiama tutti i parenti e viene a chiederti un autografo”.