Dai Big-Mac a Hey Jude: la storia di Gignac, stella e guida del Tigres
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Data: 08/02/2021 -

Dai Big-Mac a Hey Jude: la storia di Gignac, stella e guida del Tigres

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Un francese protagonista in Messico. Non lo si sentiva dalle pagine di storia e dalla conquista di Napoleone III di qualche secolo fa. La stessa storia che ora sta scrivendo André-Pierre Gignac col suo Tigres, infrangendo record su record: miglior marcatore della storia del club, miglior goleador europeo di sempre nel campionato messicano. E ora manca solo l’ultimo scalino prima di salire sulla cima del mondo: la finale del Mondiale per club, un traguardo mai raggiunto dal Tigres, ottenuto grazie ai suoi gol. Ne ha segnati due nei quarti contro l’Ulsan Hyundai, uno in semifinale contro il Palmeiras. Bomber, leader, trascinatore: eroe di un popolo. E il Tigres vola verso territori mai conquistati prima. Il cielo ora si tocca con un dito

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Gignac nasce a Martigues, a pochi chilometri da Marsiglia. Durante la settimana gioca per le strade, la domenica va al Vélodrome a vedere l’OM. Uno stadio da dove passerà la sua crescita professionale. Prima ci segna per ben tre volte, da avversario, con le maglie di Lorient e Tolosa. Poi esaudisce il suo sogno: dopo aver conquistato la nazionale, restava quello di vestire la maglia dell'Olympique. La firma arriva nel 2010, ma l’avventura nel club del suo cuore però parte male. Infortuni e pressioni lo portano verso scelte sbagliate. Come quella della cattiva alimentazione. Segna poco, s’infortuna spesso, prende peso. Il vortice lo trascina giù. A Parigi iniziano a sfotterlo: “Un Big-Mac pour Gignac!”. La parabola dell’attaccante prende una brutta piega. Nazionale persa, forma fisica lontana. Serve una svolta, e arriva dall’argentina.

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Il decollo definitivo arriva con Marcelo Bielsa. L’argentino approda all’OM nel giugno del 2014, ma un mese prima parla con l’attaccante francese: “Hey, io ti conosco benissimo. Ascolta me: perdi due kg e segnerai 25 gol a stagione”. Svolta. Déclic, come si dice in francese. Va in vacanza in Tanzania, e cambia la sua vita. Tra un safari e un altro, ogni giorno fa una partitella con giocatori del paese, a 2600 metri di altitudine. A fine giugno si presenta al raduno ed è un altro. Asciutto, determinato, arrabbiato. Ascolta El Loco e si fa trascinare dai suoi insegnamenti. Fine stagione: 21 gol in 38 partite. Gracias, Marcelo. E la sua carriera prende il volo. 

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A fine anno l’OM non può permettersi di rinnovargli il contratto e lo lascia partire gratis. Gignac ha lanciato la sua carriera e lo attendono piazze importanti. Si fanno avanti club inglesi, tedeschi, e il Lione. Lui sceglie il Tigres e lascia tutti attoniti: “Dopo aver passato cinque anni nel club del mio cuore avevo bisogno di qualcosa di diverso”. In Messico arriva l’uomo che Bielsa ha cambiato. Conferma Ricardo ‘Tuca’ Ferretti, suo allenatore dal 2015: “Ha sempre avuto il 9% di massa grassa. Due punti sotto al limite consentito dal club. Lavora come un matto. È un leader, un trascinatore”. E in campo si vede. Arriva e segna da subito. Enchanté, gli dicono i suoi nuovi tifosi. Lui ricambia a suon di gol e inchini. Cinque anni dopo i saranno 147 in 246 partite. Qualsiasi tipo di record sarà infranto e battuto: André-Pierre Gignac è diventato un mito.

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Il Tigres è Gignac. Gignac è il Tigres. Il francese segna e fa sognare un intero popolo, trascinandolo verso conquiste che sembravano impossibili prima del suo arrivo. Per la sua gente è diventato idolo, luce, guida. Per le feste dei bambini della città c’è un suo sosia disposto a fare apparizione nelle case per rendere i bimbi i più felici del mondo. Dopo ogni gol parte il coro sulle note di Hey Jude dei Beatles: quarantamila persone che cantano “La la la la la … Ghiignaac” (pronuncia latinoamericana). Lui segna e lo stadio trema.

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La musica cambia. Le parole pure. Niente più sfottò, solo ovazioni. In giro per la città girano tifosi che indossano la sua maglia e portano tricolori francesi. In Messico la storia ora la scrive lui, mentre si gode il momento più bello della sua vita. Alla soglia di 35 anni ha un solo rimpianto: la costanza. “Se anche da giovane fossi stato attento al fisico avrei potuto fare molto di più”. Ma ora poco importa. L’età si fa avanti ma lui si sente ancora fresco e con tanta fame: quella giusta stavolta. Quella che fa trasformare la rabbia in successo. E adesso c’è la finale del mondiale, ottenuta con cattiveria, freddezza e grazie ai suoi artigli. Con cui graffia le partite e fa sognare il suo nuovo popolo. Come una vera tigre.

E allora giù il cappello. Anzi, giù il sombrero. Chapeau, in ogni caso.



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