"L'allenatore non è più solo un insegnante di calcio, ma anche uno psicologo". A dirlo fu Hector Cuper, che prima di ogni partita batteva il petto dei suoi giocatori. Sono sempre più frequenti i casi di allenatori "esonerati" dai loro calciatori e di squadre che "giocano contro l'allenatore". Quanto pesa l'aspetto tecnico-tattico e quanto quello piscologico, la famosa "empatia" di cui parlava Mourinho? Bastone o carota, dipende tutto da chi ti trovi di fronte:
"Ci sono due tipologie di approccio: una è quella che utilizza la leva del 'dolore' e l'altra quella che utilizza la leva del 'piacere' " - dichiara ai microfoni di GianlucaDiMarzio.com il mental coach Roberto Civitarese -"Nella leva del dolore ci sono tutte quelle situazioni di 'minaccia': doppio allenamento, panchina, esclusione dalla rosa. Da ciò scaturisce una reazione, che non dipende dalla metodologia, ma dal calciatore. La seconda metodologia è più gratificante: si pone un obiettivo al gruppo e si stabilisce un premio, la 'gratificazione'. Sono due metodi opposti, maentrambi mirano allo stesso risultato. La differenza dipende dal giocatore che hai davanti. Alcuni hanno bisogno più del bastone che della carota. Altri, molto più professionali, necessitano di una metodologia più morbida, quella più gratificante".
Ci sono esempi vincenti per entrambi questi metodi di lavoro: "Certamente sì. Conte e Mourinho sono quelli più sanguigni, che optano per il bastone: fa parte del loro carattere. Mentre Ancelotti, nonostante quello che è successo, che dipende più dall'ambiente in cui si è trovato, Guardiola, Ranieri, Allegri, sono per un approccio più morbido. Allenando giocatori di temperamento come Materazzi e Ibrahimovic, funziona più il metodo Mourinho rispetto a quello di Guardiola: i risultati sono evidenti. Ibra prova grandissimo affetto e stima per Mourinho e una forte inimicizia nei confronti di Guardiola. Non si può parlare di metodo più efficace, ma lo stesso va scelto in base alla persona che ti trovi di fronte".
Come evitare musi lunghi? Chi viene "escluso" solitamente non la prende bene: "L'allenatore per amalgamare dal punto di vista motivazionale il gruppo ha la necessità di creare insieme a tutti i giocatori un obiettivo comune già dall'inizio della stagione" - riprende Civitarese - "Ogni giocatore ha i suoi obiettivi, è una mini azienda, come abbiamo potuto vedere nel caso Neymar-Cavani, discussione più legata ai contratti che non al bene della squadra. L'allenatore deve creare un obiettivo "comune" e "condiviso", queste sono le due parole magiche. Se si entra in quest'ottica, il giocatore, se non è in condizioni ottimali, paradossalmente è il primo a volere che giochi chi invece può essere più efficace per la squadra: dà più garanzie per il raggiungimento dell'obiettivo".
Non solo qualità tecniche dunque, ma anche qualità caratteriali: "Il gruppo è fatto da singoli, è inevitabile. Per questo, oggi, il compito più difficile dell'allenatore è proprio quello di trovare la sintesi perfetta, un obiettivo comune che coinvolga in ugual misura tutti. Parliamo di squadre di primissima fascia, composte da grandi fuoriclasse e di questo elemento si deve tener conto in sede di mercato. Non a caso Marotta ha più volte dichiarato che lui prima di comprare un giocatore ci va a cena 3 o 4 volte: vuole conoscere l'individuo più che la parte tecnica. Per la parte tecnica basta vederlo giocare, analizzare il carattere è più complesso: come si comporterà con gli altri? Deve condividere la stessa filosofia e dunque bisogna trovare persone simili dal punto di vista caratteriale".
Dunque è da abbondonare l'idea dell'allenatore "boss" a favore del "leader"? "Certamente sì'. L'allenatore deve essere un leader, una guida riconosciuta. Mentre il boss è imposto. Lo stesso accade con i capitani, alcuni portano la fascia, ma i veri leader spesso sono quelli senza. Ci sono calciatori che sono più trascinatori del capitano, perché hanno un modo di approcciarsi alle difficoltà da leader: è una cosa che hai o non hai. Faccio un esempio. Quando la Reggina cedette Missiroli, l'allenatore mi chiese come avrebbe dovuto scegliere il nuovo capitano. Io gli dissi che il leader è il capitano riconosciuto dalla squadra, non chi ha più presenze. Ci fu un plebiscito a favore di Bonazzoli: era lui il leader riconosciuto e diventò capitano".
Il mental coach può aiutare gli allenatori? "Certo. L'allenatore della mente ne studia il funzionamento: è quello che noi definiamo "modello mentale". Il cervello riceve delle informazioni, le elabora e produce una reazione: questa dipende da come ognuno di noi interpreta quegli input. Il mental coach deve ampliare la visione delle cose. Spesso l'esclusione dalla squadra viene presa come una punizione e non come una scelta tecnica, dettata dalle esigenze tattiche dell'allenatore. Queste decisioni, che dipendono dalle caratteristiche di singolo e avversari, vengono vissute male: paradossalmente giocare meno può essere più utile. In quei 10 minuti l'allenatore vede nel panchinaro la possibilità di determinare il risultato e spesso succede proprio così. Bisogna guardare le situazioni da un'angolazione diversa e questo ti porta a reagire in modo diverso. L'ideale sarebbe che la reazione del calciatore sia sempre funzionale all'obiettivo del singolo e a quello di squadra".
Civitarese trova la sintesi perfetta: "Non si può ragionare a senso unico: gioco per me o gioco per la squadra. La visione corretta è questa: "Penso prima a me stesso e poi al gruppo". Mi spiego... Quando viaggiamo su un aereo e ci danno le istruzioni per la maschera dell'ossigeno, ci viene detto di mettere la maschera su di noi e poi sul bambino: sembra assurdo. Ma c'è una spiegazione: se metti prima la maschera al bambino rischi di perdere i sensi e di non essere d'aiuto né al bambino, né a te stesso. Per aiutare il bambino dobbiamo invece essere pienamente efficienti. Nel calcio vale lo stesso. Bisogna prima essere in grado di esprimere le proprie caratteristiche e qualità al 100%. Solo in questo modo sono in grado di dare una mano alla squadra".
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