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“Juve treno perso, Toro sfida tra i fischi”. Il derby di Pasquato

Prendi il telefono e scrivi su Whatsapp: “Ciao Cristian, ti va un’intervista?”. Dall’altra parte, una foto con la moglie e i figli, un’ultima connessione di qualche ora prima e la spunta blu che arriva con calma. “Mi stavo allenando, scusa”. Calciatori lo si è sempre: sia quando avevi 19 anni ed eri una promessa della Juventus, sia quando ti ritrovi a 30 in Serie D, con la voglia di ambire a molto di più. Cristian Pasquato, però, è tutt’altro che una meteora. Ha fatto un suo percorso. Poteva essere migliore? Forse sì. “Nel caso, la colpa è solo mia” dice. Ma non con quel velo di rimpianto che potrebbe trasparire. È lucido, quasi freddo. Molto concreto.


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Non un aspetto qualunque, per un giocatore che aveva fatto della fantasia e dell’estro i suoi punti di forza. Ora gioca al Campodarsego: è vicino a Padova, vicino a casa sua. Aveva aspettato una chiamata dalla Serie A, non è arrivata. Eppure aveva giocato al Legia Varsavia per due anni (uno, per la verità: nel secondo si è trovato fuori squadra in attesa di una sistemazione), aveva vinto anche un campionato in Polonia. Ma voleva tornare in Italia, per riavvicinarsi alla famiglia. “Una scelta. Ne ho fatte tante in vita mia”. Trent’anni, una maturità acquisita col tempo. Ma la voglia di mettersi in gioco c’è sempre stata. Come quando a ventidue anni aveva deciso di lasciare la Juventus per andare al Torino.


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Aria di derby. Era il gennaio del 2012, la squadra di Ventura lottava per le prime posizioni della Serie B. Arrivò sotto la neve, tra lo stupore dei tifosi e con la stampa particolarmente severa nei suoi confronti. “Fu un rischio che non ha ripagato. Non ha influito, penso, il fatto di essere della Juventus: erano scelte tecniche. Ho giocato solo tre partite, ma alla prima contro il Gubbio in casa feci gol dopo un minuto dal mio ingresso in campo”. Era il 5-0, il Torino giocava in casa. “Venni sommerso dai fischi della Curva Maratona. Quando segnai, la tribuna applaudì, gli atri no. Era stata una sensazione stranissima. Direi anche bella. Ho fatto qualcosa di folle. Se me l’aspettavo? Sì, ma quando sono entrato in campo non ho sentito più nulla. Avevo scelto il Toro per la mia carriera, si trattava di giocare una B ambiziosa, non sono stato a pensare al derby o ai colori. Per me è stata una decisione giusta, come giusta poteva essere la scelta dei tifosi di fischiarmi. Purtroppo non mi sono messo in mostra molto ma ho fatto il massimo e nessuno può dirmi nulla. Mi è spiaciuto, speravo andasse in maniera diversa”.


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La sua vita è spesso stata un bivio. Alcune strade si sono rivelate molto giuste. “A Modena, per esempio. Stagione 2010/2011: ero poco più che un ragazzo. Poi anche Bologna: mi ha permesso di vivere la mia unica annata di Serie A. Non ho giocato molto, ma è stato bello respirare l’aria di palcoscenici importanti. E poi c’è Pescara, la mia seconda città. Ci ho perso un playoff, ma ci ho anche vinto un campionato. Qualche soddisfazione me la sono tolta”. E i rimpianti?La Juventus”, dice. Non ha dubbi. “I bianconeri devo ringraziarli sempre e per sempre. Mi hanno dato qualcosa di unico e incredibile. Mi hanno fatto crescere: per merito loro sono andato via di casa quando avevo 14 anni e da quel momento non sono più tornato. Mi hanno formato, prima come ragazzo, poi come uomo. Quello che ho vissuto a Vinovo, non l’ho mai trovato altrove. La mia chance l’ho avuta con Conte ma me la sono lasciata scappare via. Avevo vent’anni, preferii all’ultimo giorno di mercato andare al Lecce per giocare. Ora probabilmente avrei agito diversamente. So che avrei avuto una sola possibilità su novantanove, ma avrei dovuto giocarmela tutta. Chissà come sarebbe andata. La Juve è come un Frecciarossa: passa mezza volta sola a 300 chilometri all’ora. Se la perdi, non torna più”.


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Niente malinconia. Ma lucidità. Da piccolo tifava Milan. Poi, è cresciuto nel mito di Del Piero. E in prima squadra, con la Juventus, aveva esordito proprio sostituendo Alex: 11 maggio 2008, Juventus-Catania. Ingresso al 90’, con Ranieri in panchina. Non vedeva l’ora di prendere quel treno, non ce l’ha fatta. Ora è tornato in Italia, per avvicinarsi alla sua famiglia dopo tre anni all’estero (prima in Russia, poi in Polonia) e per sperare di avere nuove soddisfazioni. “Non penso al dopo, penso all’adesso. Sono in Serie D, voglio tornare in alto il prima possibile. Anche per questo ho scelto di ripartire da qui. Finché le gambe mi daranno la possibilità, continuerò a fare quello che è sempre stato il mio sogno da bambino. Magari in futuro, con altri ruoli, avrò altre soddisfazioni. Per ora penso solo a giocare e a divertirmi”. Che è il suo mondo. Lo è sempre stato. Anche quando si trattava di essere coperti di fischi da parte dei tuoi tifosi, o di sostituire il tuo idolo di sempre in campo. Pasquato ha perso un Frecciarossa? Non importa. Ha vissuto sempre a 300 all’ora. Ma la destinazione finale, per ora, resta lontana.