Ventitré anni, una vita fa calcisticamente parlando. Lamberto Dini alla presidenza del Consiglio, Bill Clinton alla Casa Bianca. La nazionale di calcio era allenata da Arrigo Sacchi, si pagava ancora con la lira: “E i giovani venivano considerati. Prima lavoravano, adesso sono abbandonati a sé stessi”. Per Cesare Albè questo non è un mondo migliore, o almeno quello che si aspettava quando nel settembre del 1995 arrivò sulla panchina della Giana Erminio: “Oggi c’è una grande paura, in tutti. Prima giravo senza una lira in tasca, adesso non si può più fare” Ci racconta. Ma in fondo: “Siamo tutti figli del proprio tempo, per questo ho detto basta”. Sì, dopo la bellezza di 23 stagioni consecutive sulla panchina della Giana, ha deciso di sedersi dietro ad una scrivania in qualità di vice-presidente. Colpa di qualche acciacco fisico dovuto all’età: “E poi i giocatori ormai sembravano i miei nipoti” Scherza. Tante le cose cambiate, anche nel calcio: “Che non ho mai considerato come un lavoro. Prima vivevo nello spogliatoio. Chiacchieravo con i ragazzi su tutto, ci sedevamo al tavolo con le loro famiglie. Adesso le rose sono talmente lunghe che servono due spogliatoi. E poi ci sono i cellulari…”.
Dalla promozione alla Serie C, con tre retrocessioni nel mezzo e…nessun esonero: “Allora, probabilmente, non posso essere considerato un allenatore – ride – anche se lo avrei digerito malissimo” Amette. Un bellissimo rapporto con il Presidente Oreste Bamonte, fatto anche di litigate e discussioni: “Durante una di queste una volta gli dissi che era stanco di me, che dopo 10 anni era come se fossi diventato sua moglie e che in quel momento aveva bisogno dell’amante. Lui le cose me le ha fatte sudare tutte e io non sono mai scappato. L’importante è il dialogo, proprio come con la moglie”. Già: “Quella santa donna è la persona che devo ringraziere più di tutti. Mi ha sempre fatto fare ciò che amavo e non per soldi. Anzi, guadagno 1.040 euro al mese. Cumulando la pensione da impiegato finisco per pagare più tasse, ci perdo insomma. Mi rimproverava solo quando facevo tardi al campo. Tornavo alle tre di notte e qualche volta mi ha chiuso fuori di casa. La prima volta mi ha lasciato un sacchetto fuori dalla porta, guardo dentro e mi aveva messo un cuscino e una coperta. Il giorno dopo mi ha tolto anche il suono del campanello. Forse ne ho approfittato fin troppo…”.
Adesso avrà un po’ più di tempo per godersi la sua famiglia: “Perché la vita non è fatta solo di calcio. Qualche giorno fa ho accompagnato il nipotino all’asilo. Mi ha chiesto: ‘Dopo vai alla partita?’. Quando gli ho detto di no era felicissimo”. E poi ci sono anche i due figli: “Mi hanno detto che importa la qualità, non la quantità del tempo che ho dedicato a loro. Io non ci credo, ma faccio finta di sì. Nel corso della mia carriera ho ricevuto anche delle proposte interessanti, ma sono sempre rimasto a Gorgonzola perché è ad un passo da casa mia”.
La famiglia se la portava anche in giro per gli oratori, quando allenava la Pierino Ghezzi: “La mia prima esperienza – ricorda – laddove il calcio è diventato droga. Mi convinse un mio amico, che poi è diventato anche il Presidente. Segnavo il campo, pulivo gli spogliatoi, a volte non avevamo nemmeno i palloni per allenarci. E poi c’era un prete, Don Giacomo, che odiava il calcio”. Lì le prime battaglie, lì le prime vittorie e la realizzazione dei un sogno cullato fin da bambino: “A scuola ci divertivamo a fare le formazioni per le partite all’oratorio. Il problema è che volevano decidere sempre i soliti. Allora io protestavo e puntualmente venivo beccato e messo in punizione dalla mestra. Mi facevano scrivere per cento vole sul diario: “Non si parla di calcio”. Poi a casa le prendevo anche”.
In quella classe: “Tutti stavano per i cowboy e io per gli indiani. Tutti tifavano per l’Inter e io per il Milan”. A proposito: nel 2014 Cesare porta la Giana in Serie C. Il corso da allenatori diventa obbligatorio, ma lui non ci voleva andare: “Avevo 64 anni anni dai…”. Fra i colleghi c’è anche Rino Gattuso, il primo con cui si intrattiene: “Poi, qualche settimana dopo, vado a giocare a Monza e sento uno dire: ‘Mister, potevi vincerla’. Era lui, venuto a studiare. Che persona speciale”.
Intanto la sua eredità passerà a Raul Bertarelli, vice da quattro anni: “L’ho portato io qui. Non ha bisogno di consigli, perché abbiamo passato molto tempo insieme e ci siamo già detti tutto. E’ bravo e preparato, un po’ un ragazzo nato vecchio alla Benjamin Button. Non ha un passato importante da calciatore, proprio come non lo avevo io. Per questo motivo, a maggior ragione, dovrà crearsi un rapporto vero e sincero con il Presidente. Altrimenti si farebbe dura e, se andasse male, sarebbe una sconfitta per me”. Lui, comunque, ci sarà sempre: "Eviterò solo le trasferte lunghe, quelle sì che iniziano a farmi male". Non sarà ad urlare dalla panchina, ma il suo cuore sarà per la Giana Erminio. Dopo 23 ani, non potrebbe essere altrimenti.