La scenografia dello stadio San Nicola, già di per sé teatrale, magica e suggestiva, diventa del tutto surreale negli ultimi 10 minuti di Bari-Cagliari. La pioggia inizia a scendere fitta sulle teste dei tifosi. Strano, perché alle 17:30, a tre ore dal fischio d’inizio, i 20.000 già presenti all’ingresso facevano fatica a restare in coda a causa di un sole radiante. Siamo al termine di una partita statica, ma che a breve può trasformarsi nel tumulto di gioia di una città intera. Perché ai biancorossi basta lo 0-0, e dagli spalti parte già il coro tanto atteso: “Riprendiamola questa Serie A”.
La pioggia incalza, il Bari colpisce un palo, poi risponde il Cagliari, ma le prese di Caprile sono sempre dannatamente sicure. Arriva il 94’: “E tanto già lo so, che l’anno prossimo…”. Imperversa il diluvio: ai baresi non importa, sembra quasi che quella cornice onirica sia stata costruita su misura per il momento. Eppure qualsiasi sogno può farsi incubo. Basta poco, anche un piccolo tocco. È l’inaspettata zampata di Pavoletti a capovolgere tutto a 120” dalla fine: le grida dei biancorossi diventano ora un silenzio assordante. Dal settore ospiti, invece, sono ancora più increduli, perché con quel gol il Cagliari è in Serie A. È l’affermazione massima di tutti i paradossi che il calcio porta con sé. Per fortuna c’erano 58.000 testimoni ad assistere, altrimenti si farebbe fatica a crederci.
Da sogno a tacito incubo: i 10 minuti di vuoto del Bari
Dalle 22:10 alle 22:20 della giornata più importante degli ultimi 20 anni del Bari può cambiare tutto. Un risultato, una stagione, una storia. Una vita. Quella dei biancorossi passa sicuramente da un crocevia fondamentale: il palo di Folorunsho, colpito proprio a 10 minuti dalla fine. La disperazione si trasforma all’inizio in entusiasmo, perché quel gol mancato innesca l’apparente ultimo sprint verso la Serie A, in un finale da film. Ma per i padroni di casa è un horror.
La rete di Pavoletti al 94’ sembra schiacciare il tasto “muto” sul telecomando del San Nicola, mentre i 1100 tifosi ospiti replicano un magnitudo simile a quello dei supporters avversari per via dell’irrazionalità con cui vivono quella scena così surreale. I cagliaritani si scatenano in un tripudio assoluto; per i tifosi biancorossi c’è solo il vuoto. È quello delle 57.000 teste che si appannano in pochi secondi, private di qualsiasi energia. È un silenzio assordante, perché grida giustizia.
A fine partita non bastano le immagini a psicanalizzare ciò che c’è dietro quegli sguardi. Dorval e tutta la linea difensiva crollano a terra esanimi, forse proprio perché le loro anime in quel momento vengono prosciugate. Caprile inizia a calciare con forza il palo, ripetutamente, per spaccarlo o spaccarsi la gamba. Esposito è sconvolto, probabilmente tra i più affranti, perché mentre singhiozza tanti collaboratori vanno a incoraggiarlo. Un fradicio Mignani si toglie la giacca ed esce di scena incredulo, andando a isolarsi negli spogliatoi. E poi c’è capitan Di Cesare. Due minuti e sarebbe stato il compimento di un ciclo, di una carriera. Di una vita. E invece è lì, in mezzo al campo: per guardare i suoi occhi bisognerebbe scavare tra le lacrime straripanti.
La pioggia intanto è cessata di colpo, come a voler sancire la fine del film: i pianti non si confondono più con le gocce del cielo. Lo stadio si svuota in poco tempo, alcuni restano paralizzati sui propri seggiolini mentre altri, come i fedelissimi della Curva Nord, continuano a cantare, consapevoli di farlo “al di là della categoria”. C’è la sensazione che in questo momento il senso d’appartenenza vada oltre ogni logica. Specialmente quando una logica agli eventi non c’è.
La festa del Cagliari
Dicevamo di quei 1.100. Se nel calcio ogni sogno si può trasformare in incubo è perché anche gli altri hanno la possibilità di viverli. Per il Cagliari una promozione così ha tutti i connotati di una vera e propria catarsi. Per informazione, chiederlo ai presenti nel settore ospiti del San Nicola. Pure loro, come i rivali di questa finale, non hanno mai smesso di cantare, anche se arrivati al 94’ si fa fatica a crederci per davvero.
E invece basta un flash per trovarsi a invadere il campo, gioire, scoppiare in lacrime di felicità e iniziare a festeggiare nello stadio più grande di tutta la Serie B. Proprio in quello scenario progettato per il loro sogno. A fine partita sono solo loro a farsi sentire: non nei pressi del campo, ma in tutta Bari e provincia, rimasta completamente taciturna.
Sciarpe, maglie e bandiere possono finalmente essere sventolate con orgoglio. Eppure tra un “ce ne andiamo in Serie A” e quel familiare “l’anno prossimo gioco all’Olimpico”, partono anche cori di sfottò verso il Bari, prontamente sedati da Ranieri. In lacrime, singhiozzante, ma ha la lucidità di andare sotto la curva per cambiare tutto: “Ho chiesto ai miei tifosi rispetto per il Bari – dirà poco dopo in conferenza. Non è bello che abbiano cantato 'Serie B'. Bisogna gioire per i propri successi, non per la tristezza altrui”. È l’immagine più bella in una serata di gloria e dolore, a fare da trait d’union tra i due estremi più assoluti e paradossali che lo sport possa offrire.
Il Cagliari può rimettere i remi in barca e lasciare la penisola sul vascello della Serie A. Per il vuoto biancorosso che si è creato al San Nicola, invece, ci sono poche parole, oltre a tanta empatia. Rialza la cresta, Bari: anche dopo il silenzio più assordante, il galletto tornerà a cantare.